Un paradigma normativo
Le comunità tradizionali – per gli indoeuropei lo ha dimostrato George Dumezil, ma diversi elementi portano a concludere che il paradigma fosse proprio anche alle altre culture – erano organizzate sulla base della “tripartizione funzionale”. Si trattava della suddivisione gerarchica per caste ciascuna delle quali era addetta alla cura di una ben precisa sfera o dimensione antropologica e comunitaria. Queste sfere erano quelle del Sacro, del Politico, e dell’Economico (1). Alla prima era addetta la casta sacerdotale, alla seconda la casta guerriero-regale, e alla terza la casta dei produttori ossia contadini, artigiani e mercanti. Questa tripartizione costituiva l’analogia, sul piano della vita sociale, della gerarchia riscontrata nel cosmo. Nella concezione tradizionale, infatti, il cosmo svela una ripartizione ternaria di Piani del Reale ossia lo Spirituale, l’Animico (o Psichico o Sottile) e il Materiale. Tra questi Piani c’è consecutività. Nelle culture extrabibliche è una consecutività per emanazione. In tali culture il Materiale e l’Animico sono una caduta dello Spirito che, pertanto, deve ciclicamente riassorbire, riportare, a sé quanto da sé emanato. Nelle Tradizioni abramitiche, invece, è una consecutività per partecipazione giacché Materiale e Animico sono creati ex nihilo da Dio che partecipa gli esseri finiti del Suo Essere infinito.
Dato che la tripartizione ha corrispondenza nella stessa costituzione dell’uomo l’analogia riguarda anche l’antropologia. Infatti, in tutte le Tradizioni l’uomo è un sinolo di Spirito, anima e corpo (2). Talvolta, come in Platone, la tripartizione è riproposta persino all’interno dell’anima, distinguendosi tra anima razionale, anima emozionale e anima vegetativa. Nella teologia medioevale, le distinzioni interne all’unità fondamentale della persona umana venivano definite dal rapporto partecipativo tra l’intellectus (o intelligenza o coscienza) – ovvero l’elemento sede-cardiaco specificatamente spirituale in relazione immediata con lo Spirito di Dio –, l’anima in senso propriamente psicologico, l’anima animale perché in relazione stretta con le funzioni corporee, e naturalmente il corpo.
La modernità ha creduto di poter “smitizzare” la concezione cosmo-antropologica tradizionale. Noi uomini post-moderni, sulla scia della rivoluzione scientifica post-meccanicistica avviatasi nel XX secolo, dovremmo invece superare il riduzionismo moderno per comprendere che la pluralità di livelli del Reale non è affatto un paradigma del passato, da lasciare all’interesse degli antropologi e degli storici. La tripartizione, che talvolta è una quadripartizione, è, infatti, normativa, quindi valida in ogni epoca, perché afferente ad un Ordine la cui violazione è per l’uomo certamente possibile ma non senza conseguenze. L’uomo, infatti, nell’esercizio della sua (do)nativa libertà, può violare l’Ordine. La violazione avviene allorché egli usa la propria libertà per volgerla non verso l’Alto, a sugello dell’armonia originaria con la creazione, ma verso il basso. Credendo di affermare, in tal modo, la propria soggettività, la quale di per sé è senza dubbio bontà originaria, l’uomo al contrario finisce per imporre la propria protervia – la übris greca – che in Genesi 3,5 si svela nel desiderio di essere dio a sé stesso, di auto-costruirsi come “dio” sulla presunzione della non distinzione, e quindi della connaturalità, tra creato ed Increato.
L’esercizio deviato della libertà umana porta all’individualismo che, nel tradizionale contesto comunitario, è il male. Nessuna cultura umana ha contestato la normatività della tripartizione che, prima di essere attinente all’organizzazione sociale, è attinente al cosmo e all’uomo posto nel suo centro quale Icona Dei. Solo l’Occidente moderno, a partire gradualmente dal XV-XVI secolo, ha negato l’esistenza di una normalità ordinativa. La negazione del Sacro, avviata dalla dinamica storica occidentale, ha comportato la riduzione della tripartizione del reale in un primo momento alle sole sfere del Politico e dell’Economico e dopo, più tardi, alla sola sfera dell’Economico.
Nel corso dei millenni, nell’organizzazione sociale delle comunità umane, alla tripartizione ha corrisposto una rigida struttura gerarchica della società per caste chiuse basate sull’ereditarietà del sangue, considerato veicolo di influssi superiori, con la inevitabile esclusione di qualsiasi mobilità sociale. Il singolo era protetto dalla sua appartenenza alla comunità, fosse essa il clan o la polis o il regno, ma scontava l’inevitabile pressione del gruppo. Una delle forme della pressione sociale consisteva nel dominio economico delle prime due caste sulla terza. In economie agricolo-pastorali, la funzione sacerdotale e guerriera legittimava il possesso sovrano – non ancora si può parlare di proprietà privata in senso moderno – della terra alla cui cura erano addetti i contadini appartenenti al ceto dei produttori.
Si faccia attenzione, però, a non interpretare questo scenario con una chiave di lettura di tipo liberale o marxista, vedendovi la negazione dell’individualismo o lo sfruttamento classista. In un contesto come quello delle culture tradizionali, nel quale il rapporto dell’uomo con il Divino, e nel suo ambito le virtù spirituali degli eroi, era di capitale importanza, il ruolo esercitato dagli addetti al culto e da coloro che erano deputati a portare le armi – non solo per difesa della comunità ma anche per governo e amministrazione della giustizia – era tale da legittimare la rendita fondiaria ad essi dovuta. Si trattava, nell’antichità, di una legittimazione alla rendita che poteva rivendicare un titolo sociale certamente, in quello scenario, più fondato della moderna rendita finanziaria, creditizia o borsistica, che oggi domina il mondo e che si risolve in una creazione ex nihilo di denaro dal denaro indipendentemente dal lavoro e dalla produzione.
Che il paradigma della tripartizione fosse indiscusso nell’antichità è dimostrato anche dalla sua idealizzazione proposta da Platone, il quale nella “Repubblica” pone al vertice della gerarchia i filosofi, per l’ateniese equivalenti a figure sacerdotali, nel mezzo i guerrieri e alla base il popolo costituito da artigiani, mercanti e contadini. Nella idealizzazione platonica, che con troppa facilità è stata chiamata erroneamente “comunista”, solo il popolo ha diritto alla proprietà delle terre e dei beni con valore economico mentre ai filosofi e ai guerrieri è negata ogni proprietà dovendo essi vivere in ascetica condivisione del poco strettamente necessario alla soddisfazione delle esigenze fisiologiche della vita. Si suppone che quel “poco”, il nutrimento, l’alloggio, il vestiario, sarebbe stato ad essi fornito dai produttori. L’idealizzazione platonica dimostra quanto il ruolo sacerdotale-regale fosse ritenuto fondamentale nell’organizzazione dello “Stato giusto”. Un ruolo, quindi, non ritenuto parassitario perché connesso con l’Ordine cosmico che richiede la presenza di una specifica funzione atta, per competenza iniziatica, a mantenere la comunità umana in comunicazione con il Divino intorno al quale erano ordinati anche il Politico e l’Economico. Quello di Platone, tuttavia, resta un tentativo di accreditare uno scenario, per l’appunto, “ideale” che nella realtà invece comportava l’esercizio del dominio terriero, con relativa rendita, da parte dell’aristocrazia distinta nelle sue due componenti del sacerdozio e della regalità guerriera.
Anche quando subentrò una economia mercantile, con l’emergere dell’elemento monetario e finanziario, la gerarchia castale più che combattuta venne rimodulata nel passaggio da una aristocrazia sacerdotale-guerriera ad una aristocrazia “borghese”. Questa rimodulazione è storicamente riscontrabile sia nell’antica Grecia, sia nella Roma repubblicana, sia nel Medioevo comunale.
Anche nel Medioevo, infatti, la tripartizione costituiva la norma. Nell’undicesimo secolo i due vescovi francesi Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai, senza sospettarne la radice antichissima, raffigurarono la società del loro tempo mediante il tradizionale paradigma tripartito. La Cristianità, dell’epoca, nella loro descrizione, era fondata sulla distinzione delle funzioni sociali degli “oratores”, dediti alla preghiera e al culto, dei “bellatores”, dediti alle armi per la difesa della comunità e quindi alla politica intesa quale esercizio di autorità, e dei “laboratores”, dediti alla produzione per il sostentamento proprio e degli appartenenti agli altri due ordini.
Va detto, tuttavia, rispetto all’antichità precristiana, che la Chiesa, quale Corpo Mistico di Cristo, esprimendo in sé l’Universalità Sovraordinata di Dio, ha sottratto – come mai era stato fatto in precedenza – la sfera del Sacro alla sua atavica, stretta e diretta, connessione con il clan, la polis, il regno, l’impero. Difatti la Chiesa, “communitas perfecta” dei christifideles (sacerdozio e laicato) dotata di un ordinamento giuridico proprio, a differenza dei collegia sacerdotali precristiani dei culti imperiali o della componente sciamanica del clan non ha mai costituito il vertice sacrale di questa o quella organizzazione sociale, di questa o quella comunità particolare. La non identificazione con una mera componente della città politica, pur interagendo strettamente con essa, è ciò che ha consentito alla Chiesa di sopravvivere alla scomparsa delle diverse comunità politiche, compreso il Sacro Romano Impero, con Essa conviventi e da Essa accolte nell’abbraccio ecclesiale. Invece, nel mondo precristiano, la rovina del regno o del clan portava con sé la fine del culto statale o tribale e degli stessi corpi sacerdotali o sciamanici addetti al rito. Il significato profondo, e il motivo più autentico, del “date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio” sta proprio nella sovra-ordinazione unitaria e universale di Dio, quindi del Suo Vero Culto, alla molteplicità, e precarietà, delle aggregazioni politiche mondane. Ma, come visto, ancora nel Medioevo il paradigma tripartito considerava l’ordine degli oratores quale vertice del regno piuttosto che come espressione locale della componente sacerdotale della Chiesa universale nell’atto di accogliere nel suo seno il regno.
Tripartizione e persona
La rigidità della struttura gerarchica, conseguente alla tripartizione, da un lato limitava la mobilità sociale ma dall’altro era ostacolo formidabile all’affermazione dell’individualismo. Insieme al solipsismo – in una miscela di soffocante solitudine e di protervia egocentrica – l’individualismo ha prodotto, lungo il percorso della modernità, lo svuotamento nichilista, nella privazione di senso, dell’esistenza umana. Quella necessaria barriera contro l’emergere del male dell’individualismo veniva, però, scontata con una ridotta considerazione della soggettività della persona. La soggettività, infatti, lungi dall’essere una proclamazione di individualismo, è il portato spirituale ed etico del Cristianesimo nel cui contesto teologico-morale la persona non è affatto pensata come irrelata ma piuttosto quale soggettività che esiste, e può esistere, soltanto nella sua relazione verticale con Dio e in quella orizzontale con la comunità, o le comunità, di appartenenza. La persona reale, che non è l’individuo astratto, è quindi valorizzabile, nella sua essenza prioritariamente spirituale, esclusivamente all’interno della relazione comunitaria di appartenenza.
La tripartizione tradizionale non è riuscita nel corso dei secoli ad adattarsi completamente, con flessibilità, alla scoperta della realtà ontologica della persona, nella sua accezione di “persona in relazione”, introdotta, come detto, dalla Rivelazione cristiana ma già in parte nota alla riflessione filosofica classica. Mentre nelle concrete forme della Carità la persona trovava piena considerazione come anche nella crescita della consapevolezza etico-filosofica con talvolta luminose derivazioni sociali ed economiche – si pensi ad esempio alla nascita e al ruolo svolto a partire dal XV secolo dai francescani Monti di Pietà quale strumento di una possibile economia sociale alternativa al nascente capitalismo an-etico – non altrettanto può dirsi, se non parzialmente, nell’ambito delle relazioni sociali interne alla Cristianità, nonostante le sue strutture sociali fossero nominalmente cristiane.
Questo incompleto adattamento, più tardi aggravato dal progressivo raffreddamento della coscienza del legame dell’uomo con Dio, ha prestato il fianco alla contestazione moderna ed ateistica della tripartizione non solo nei suoi aspetti gerarchici di dominio ma nella sua essenza normativa. La contestazione ha preso forma, prima filosofica e poi storica, attraverso l’affermazione della parodia individualista della persona, elaborata dal soggettivismo autolatrico cartesiano, i cui prodromi tuttavia si riscontrano già nel nominalismo tardo-medioevale, e dalle conseguenti derivazioni illuministiche e idealistiche. Tale parodia si è imposta dapprima come lo strumento ideologico rivoluzionario per eccellenza e poi, abbattuto l’Ancien Régime, è assurta a fondamento dell’Occidente scristianizzato che, sostituitosi alla Cristianità medioevale, si è espanso fino ad inglobare, o pretendere di inglobare, ogni altra cultura extra-occidentale, non però in una ecumene spirituale, come quella dell’antica Cristianità, ma nella omologazione cosmopolita di matrice tecnico-finanziaria che ha comportato il subentrare di nuove e più ferree forme di dominio tanto capitalistico quanto statalistico.
Detto in altra maniera, l’organicismo tripartito tradizionale non è riuscito a ripensarsi nei termini di un personalismo comunitario o, meglio, di un comunitarismo personalista che sappia coniugare, nelle naturali e imprescindibili appartenenze, la persona e la comunità, in modo che la persona non sia fagocitata dalla comunità e la comunità non sia dissolta nelle tendenze egoistiche delle singole persone. In modo, ovvero, da valorizzare la persona nella comunità e la comunità nelle persone. È vero che il pensiero filosofico-giuridico-politico nel corso della modernità ha tentato di indicare alternative all’individualismo moderno. In tal senso importanti sono state le riflessioni di Santi Romano e di Maurice Hauriou, ma anche quelle del Carl Schmitt post-decisionista (3), in ordine all’istituzionalismo, una corrente di pensiero giuridico che riattualizza la concretezza organicista tradizionale contro l’astrattismo razionalista del normativismo. Tuttavia troppi fattori hanno impedito una cosciente, consapevole ed efficacia riproposizione di un contesto organicista in chiave personalista.
Nel 1789, con la Rivoluzione Francese, si è affermato il Terzo Stato sulla scia di una visione del mondo, elaborata dai “philosophes” illuministi, astratta dalla concretezza del reale. Partendo dall’assunto, leggittimatore dell’utilitarismo, che la convivenza umana sarebbe fondata sul contrattualismo sociale dal quale emerge la collettività intesa come rete sinallagmatica dei solipsismi, gli illuministi hanno astratto la persona dalle sue naturali appartenenze comunitarie per farne quel fantoccio concettuale che risponde al concetto di “individuo”. L’individuo astratto, fantoccio portatore di altrettanti astratti diritti formali, non dunque la persona reale in relazione comunitaria, è stato posto dall’illuminismo a fondamento dello Stato moderno uniformatizzatore, senza più mediazione di corpi intermedi, della complessità della realtà sociale. Il Terzo Stato si è proclamato “Nazione” ma la nazione alla quale esso si riferiva non era l’identità patria ereditata nella continuità della Tradizione quanto invece una convenzione astorica elaborata dal pensiero umano. La convenzione sociale, esteriorizzazione della volontà umana, ha così assunto la forma idolatrica della Volontà Generale. Più tardi, Fichte, Hegel, Marx e poi ancora Giovanni Gentile avrebbero fatto dell’io, tanto inteso come individualità quanto inteso come collettività di classe o nazionale, il creatore del reale, il datore di senso, che deve riportare a sé ciò che ha proiettato fuori di sé per superare, in tal modo, la propria alienazione attraverso la coincidenza, finalmente realizzata, del regno della necessità con il regno della libertà.
La democrazia moderna è nata dall’individualismo filosofico. Essa concepisce il popolo alla stregua di una informe massa di monadi solipsiste che rivendicano, in un crescendo esponenziale, desideri egoistici e capricci camuffati da “diritti”. Fino al culmine odierno delle rivendicazioni post-umane del transgenderismo e del transumanismo, il cui obiettivo è la manipolazione della natura umana per aprire la via non alla promessa, pur ingannevolmente offerta, dell’auto-deificazione, impossibile, dell’umanità ma al passaggio in massa dell’umanità medesima, sotto il controllo delle élite della finanza digitale transnazionale e della cibernetica, ad uno stato di sub-umanità. Sin dai suoi esordi, e a maggior ragione nei suoi esiti, la democrazia moderna si è palesata del tutto diversa dalla democrazia antica, tanto precristiana quanto cristiano-medioevale, caratterizzata da una dimensione organica e comunitaria.
Tripartizione e democrazia
Dobbiamo a questo punto esplicitare come il paradigma della tripartizione tradizionale possa e debba trovare spazio anche nel contesto della moderna democrazia politica.
Nonostante il capovolgimento rivoluzionario, che ha fatto venir meno la sua non più sostenibile strutturazione castale e cetuale, la tripartizione intesa quale riconoscimento della pluridimensionalità del reale conserva, misconosciuto convitato di pietra, tutto il suo vigore spirituale, antropologico e normativo. Anche nella modernità, ora in via di passaggio alla post-modernità. Non può essere più ammessa, perché non più necessaria, la corrispondenza tra la tripartizione e l’ordinamento sociale gerarchico ma essa è ancora imprescindibile quale riconoscimento della originaria tridimensionalità dell’essere umano. Una tridimensionalità di cui non si può non tener conto nella definizione costituzionale dell’organizzazione della vita associata degli uomini. La struttura tridimensionale del cosmo e dell’uomo impongono, per evitare l’abisso del nichilismo auto-distruttivo, di riconsiderare la tripartizione senza che essa sia motivo per un impossibile, e neanche auspicato, ripristino o adizione di nuove caste. Se il Sacro, almeno per il mondo che fu cristiano, ha la sua continuità, nonostante la secolarizzazione, nella Chiesa (intesa congiuntamente come unione di sacerdozio e laicato sicché, pur nella differenza ontologica dei ruoli, ogni cristiano appartiene alla sfera sacrale), il Politico può trovare una nuova consistenza nella nazione che, proprio perché oggi ha un carattere democratico, ha necessità – soprattutto per respingerne le manipolazioni ideologiche proprie dei culti di massa nazionalistici – di ripensarsi sulla base del retaggio tradizionale dell’identità culturale e storica del popolo. L’Economico, dal canto suo, non è mai scomparso ma si è soltanto modificato nelle tecniche di produzione e per via di tali modificazioni, che non hanno però impedito nuove forme di dominio, gli va prestata una attenta considerazione intesa ad assicurare a esso una dimensione di socialità per la giusta ed equa distribuzione della ricchezza prodotta. È, dunque, indispensabile riaffermare la tripartizione quale distinzione, non più castale, delle dimensioni dell’esistenza umana, anche di quella associata.
La triade “Dio, patria e famiglia”, propria alla cultura tradizionalista e conservatrice, ma non liberale, può costituire il punto di partenza per una nuova riformulazione, aggiornata a tempi di democrazia, della antica tripartizione tra Sacro, Politico e Economico. A due condizioni, però, indispensabili. La prima è che a suo fondamento, rigettato l’individualismo, sia adeguatamente considerata la “persona in relazione” nella prospettiva di una “democrazia organica” quale base politica di uno Stato di corpi intermedi intesi come articolazioni sociali della comunità nazionale. Allo scopo è necessario assumere la dialettica tra “Gemeinschaft”, comunità, e “Gesellschaft”, società, proposta da Ferdinand Tönnies onde trasformare l’attuale società mercantile in una nuova forma di comunità organica che non sia un mero ripristino delle antiche e superate forme premoderne. La seconda è che al termine “patria” deve assolutamente affiancarsi l’aggettivo “sociale” o anche, auspicabilmente, quello di “socialista”. In questa accezione, il patriottismo chiama in causa la tradizione politica del comunitarismo nelle sue varie componenti dal proudhonismo al sindacalismo organicista, dal cattolicesimo sociale alle correnti sociali della cultura democratico-nazionale e, persino, nazionalista. Fino al neo-comunitarismo contemporaneo di pensatori come Michael Sandel, Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Will Kymlicka, Tommaso Demaria. Questo patriottismo socialista, o sociale, non è affatto marxismo perché non si fonda sull’abolizione della proprietà personale ma casomai sulla sua distribuzione, anche nelle forme della comproprietà, secondo i principi del distributismo chestertoniano, i quali poi altro non sono che i principi della Dottrina Sociale Cattolica come già definiti, ben prima del moderno magistero sociale inaugurato da Leone XIII, in Atti degli Apostoli 4, 32-35. La patria o è sociale, ed allora è vera carne e vero sangue, oppure è una finzione, una astrazione, strumentale ad interessi classisti. L’uso del patriottismo per mascherare una squilibrata accumulazione della ricchezza, in favore di alcuni ceti sociali e a danno di altri all’interno della medesima comunità nazionale, è la negazione stessa della patria intesa come organicità. In una unità vivente il nutrimento, le energie, le risorse vitali – anche quelle spirituali e culturali – sono equamente distribuite fra tutti gli organi che formano l’unità del medesimo corpo, mentre l’eventuale squilibrio in tale distribuzione sarebbe causa di malattia psichica o fisica. È l’organicità in sé, essenza del vero patriottismo, a richiedere la giusta distribuzione delle ricchezze ossia la giustizia sociale.
Tuttavia non è possibile una forma istituzionale democratica della tridimensionalità dell’essere umano, inteso quale persona in relazione, senza trasformare la democrazia in una forma di auto-governo organicista e senza affermare la, indispensabile, necessità del fondamento personalista della comunità politica contestualmente alla naturale ed imprescindibile appartenenza della persona alla comunità stessa. Anzi ad una pluralità di comunità secondo il principio di sussidiarietà verticale prima che orizzontale.
È evidente che una democrazia organica, così intesa, dipende da un preventivo cambiamento culturale nel clima generale di un’epoca e, in particolare, dall’acquisizione nella mentalità diffusa di un nuovo paradigma politico comunitario, in luogo di quello attualmente prevalente di matrice individualista. Ma ancor prima è indispensabile un cambiamento spirituale attinente al rapporto tra l’uomo e la Trascendenza, che operi innanzitutto nel cuore di ciascuno. Ora, mentre il cambiamento culturale è sempre possibile, benché non senza un lungo e faticoso lavoro intellettuale ed educativo, il cambiamento spirituale necessita di una disponibilità interiore che una cultura organicista, laddove eventualmente egemone, può senza dubbio favorire ma non può tuttavia, da sola, determinare.
La questione dell’Autorità. Dall’Alto e dal basso.
In tema di conseguimento istituzionale di una democrazia organica, va premesso il delicato problema della giusta classe dirigente. Wilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels sono stati tra coloro che, nel secolo scorso, hanno posto la questione del ruolo delle élites nel corso della storia, giungendo in sostanza alla conclusione che nessuna comunità umana può sussistere senza un gruppo dirigente di un tipo o di un altro. Se Michels ha contribuito a definire, in relazione alla sociologia del partito politico moderno, la “ferrea legge delle oligarchie” (“chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia”; “sulla base democratica si innalza, nascondendola, la struttura oligarchica dell’edificio”) e se Mosca ha descritto la lotta tra le classi politiche (“È vero, come ci ha insegnato Karl Marx che la storia dell’umanità è una storia di lotta, ma non si tratta di lotta economica, bensì di lotta politica. È lotta tra una minoranza che vuole continuare ad essere classe politica e un’altra minoranza che aspira a diventarlo”), Pareto, in analogia con Mosca, ha proposto una chiave di lettura della dinamica storica quale “lotta tra élites”, piuttosto che lotta di classe, fino a definire la storia un immenso “cimitero di élites”. In sostanza, per Pareto, ogni capovolgimento rivoluzionario, anziché portate più eguaglianza, comporta l’emergere e l’affermarsi di una nuova élite in sostituzione di una che ha ormai fatto il suo tempo.
La dinamica delle rivoluzioni, comprese la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Russa, ha confermato l’assunto dei teorici dell’elitismo. Le rivoluzioni si risolvono immancabilmente nell’imporsi di un ceto di rivoluzionari di professione – il club dei giacobini, il partito fascista o il partito comunista – quale nuova “aristocrazia” politica e sociale, smontando l’astratto egalitarismo buono per i sognatori ma impossibile nella realtà. Del resto anche le democrazie liberali si reggono su élite politiche professionali, ma al servizio di superiori élites tecno-finanziarie. Infatti i professionisti della politica nelle democrazie liberali, svuotate di partecipazione popolare, hanno dato prova di cedere facilmente al dominio delle élites della finanza transnazionale, in barba alla astratta libertà individuale di cui le democrazie occidentali pretendono di farsi portatrici.
Prima di Pareto, Mosca e Michels, sono stati Platone (la Repubblica tripartita nelle tre classi dei filosofi, dei guerrieri e dei produttori), Aristotele (le tre forme possibili di governo, monarchia, oligarchia, democrazia, sovente unite in sistemi misti), Joseph Joseph De Maistre (“Bisogna predicare senza sosta ai popoli i benefici dell’autorità, e ai re i benefici della libertà”) e Juan Donoso Cortés (“Dietro ogni grande questione o errore politico vi è una grande questione o errore teologico”) a porre l’accento sulla imprescindibilità del fatto che l’Autorità non trae la sua legittimità essenziale dal basso, pur potendosi – attenzione! – trarre dal basso le persone scelte per esercitarla. Ed è proprio questo il punto cruciale per comprendere che l’istanza democratica non è estranea al fondamento metafisico dell’Autorità.
A differenza dei teorici dell’elitismo – i quali hanno svolto le loro considerazioni a prescindere da qualsiasi riferimento spirituale –, i filosofi antichi e i pensatori tradizionalisti ottocenteschi guardavano alla legittimazione metafisica che scende dall’Alto. Gesù Cristo, quando si rivolse a Pilato dicendo «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto» (Gv. 19,11), non intendeva soltanto indicare il ruolo preparatorio di Roma nell’avvenimento dell’Incarnazione ma anche affermare che l’Autorità è dall’Alto benché questo non significa affatto, come la dottrina cattolica ha insegnato lungo i secoli, che chi concretamente è chiamato a rivestire le funzioni proprie dell’Autorità non possa essere eletto dal basso (4). Quel che deve restare fermo è che per essere metafisicamente ed eticamente legittima l’Autorità deve essere o farsi portatrice della Luce superiore. La quale si manifesta innanzitutto nella kenosi, nel piegarsi, nel prendersi cura del popolo per elevarlo sia spiritualmente sia socialmente. L’assenza di una tale Autorità legittima è esattamente ciò che è molto, troppo, frequente in ogni epoca e ad ogni latitudine. Oggi, poi, questa assenza brilla in modo più che manifesto in Occidente dove al vertice sono allocate élite tecno-finanziarie. Le quali non guidano i popoli ma li dominano in modo ancor più ferreo delle antiche aristocrazie. Se i popoli non ne avvertono il dominio, dai connotati totalitari, è perché sono chiusi nella confortevole, ma artificiale e disumanizzante, gabbia cibernetica della tecno-finanza mondiale.
Patria e Cattolicesimo
«L’unificazione dell’umanità non è compito politico ma una speranza escatologica, e pretendere di prescindere dalle identità dei popoli per fonderli in un meticciato globale è un peccato d’orgoglio simile a quello biblico della torre di Babele» (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI).
La Democrazia mondiale, la Repubblica universale sognata dai philosophes illuministi e dalla massoneria, è contraria all’ordine naturale delle cose. La democrazia può essere solo nazionale, locale. La democrazia può sussistere esclusivamente su basi di patriottismo. La democrazia liberale universale è lo schermo dietro il quale si nasconde il potere sinarchico della tecnofinanza transnazionale. Un potere mondiale e come tale pericoloso nonché nemico di Dio e dell’uomo.
L’Universalità, la Cattolicità, non è affatto contraria al patriottismo che, per sua natura, è relativo alla patria e quindi al particolare. La convinzione che ci sia opposizione tra Cattolicità e patria deriva dalla confusione tra i piani della Trascendenza e dell’immanenza. L’Uno appartiene allo Spirito, che è trascendente, mentre il molteplice appartiene all’immanenza. Dio, ad immagine della Sua Uni-Trinità, ha voluto la creazione plurale e molteplice e, al tempo stesso, convergente verso l’Unità trascendente ossia l’Unità spirituale e non quella mondana. Tendere a quest’ultima, all’unificazione immanente del mondo, è, invece, un evidente ambiguo, blasfemo, tentativo di imitare l’Opera di Dio negando la Trascendenza.
Tra Cattolicesimo e patriottismo, l’“amor di patria”, sussiste una relazione intrinseca che ha attraversato i secoli. «Il mistero dell’Incarnazione … appartiene alla teologia della nazione» (Giovanni Paolo II). La patria, quale luogo primario dell’incontro della persona con il prossimo a partire dai legami naturali, è ampiamente riconosciuta dalla Dottrina della Chiesa Cattolica come dimensione naturale della convivenza umana secondo il disegno creatore di Dio. Per il Cattolicesimo la patria non è soltanto la terra natia, non è soltanto il territorio sul quale lo Stato esercita la sua Autorità. La patria per la fede cattolica è una dimensione relazionale, statica e al tempo stesso dinamica. Una dimensione di relazioni interpersonali la quale unisce, non divide, le persone che si riconoscono per la stessa cultura, per la stessa lingua, per la stessa storia, per la stessa religione, per la stessa convivenza e per cooperazione sociale. Considerando l’adagio tomista secondo il quale “Gratia naturam supponit, non tollit sed perficit” è possibile capire perché l’universalità cattolica non elimina ma, al contrario, esalta, dopo Dio, la patria.
«La patria è quel luogo dove ogni essere umano sperimenta per la prima volta e senza bisogno di mediazioni, astrazioni o edulcorazioni la dimensione multidimensionale della fraternità. Orizzontalmente: perché ogni fratello di sangue è – va da sé – un fratello, coinvolto nelle medesime origini, memorie e bisogni. Verticalmente: perché è anche con i propri genitori che si sperimenta quel medesimo legame di fratellanza, seppur a più alta intensità, che va poi a riproporsi nel rapporto con i nonni e – dilatando e forzando i limiti corporali e temporali – con i propri antenati. Una trasfigurazione sì, ma dalle basi concrete e che non può prescindere dalla tangibilità dei rapporti storici. La fraternità nella fede e la figliolanza spirituale non annullano i rapporti di sangue, semmai li portano a perfezione in quel movimento, tipico del pensare cristiano, che lega assieme particolare e universale, necessità e libertà, interno ed esterno. Dio e uomo. Una forma mentis che non ammette salti, ma relazioni via via sempre più estese, inclusive e convergenti. E non deve stupire se l’idea di patria abbia a che fare con la religione: in un certo senso, dovrebbe meravigliare semmai il contrario, poiché entrambe … tendono all’unità. E immaginare il sacro senza addentellati con lo spazio e con il tempo priverebbe l’uomo di un possibile ancoraggio con il divino, limiterebbe la sua dignità. È dentro i confini della madrepatria (espressione composta e densa di significato) che, in primo luogo, si fa esperienza concreta di chi sia il prossimo. San Tommaso D’Aquino spiegava che “i legami che abbiamo con la parentela e con i compatrioti sono più connessi di altri legami con il principio del nostro essere e [della nostra esistenza]” e che meritano “speciali riguardi”. E se di esistenza bisogna parlare, occorre ricordare che la patria terrestre non è altro che l’immagine della “casa del Padre” a cui ogni essere umano è escatologicamente chiamato a entrare e risiedere – secondo l’insegnamento cristiano – in eterno» (5).
Sicché essere futuri cittadini della Gerusalemme celeste non implica affatto la negazione della nostra patria terrena. Il Magistero dei Pontefici è sempre stato chiarissimo a proposito della patria e del suo posto e ruolo nell’ordine di natura voluto dal Creatore. Papa Leone XIII nella Sapientiae cristianae (1890), uno di quei testi fondamentali del Magistero moderno che hanno consentito di parlare di “corpus leonino”, afferma
«Si deve amare la patria dalla quale abbiamo ricevuto il dono di una vita mortale: ma è necessario anteporle nell’amore la Chiesa, alla quale dobbiamo una vita che durerà in perpetuo: perché bisogna anteporre i beni dell’anima a quelli del corpo; i nostri doveri verso Dio sono molto più santi che non quelli verso gli uomini. D’altra parte, se si vuole giudicare rettamente, l’amore soprannaturale per la Chiesa e l’amore naturale per la patria sono entrambi figli della stessa sempiterna fonte, poiché hanno come causa e autore Dio stesso, dal che consegue che un dovere non può essere in contraddizione con l’altro».
Possiamo citare, sebbene non sia un testo del Magistero, anche l’ottimo libro di Giovanni Paolo II – “Memoria e Identità” – nel quale il papa polacco fa emergere tutto il suo patriottismo cattolico fondandone le ragioni nella luce della Rivelazione e sulla base solida della teologia morale che da Essa deriva
«Se ci si chiede quale posto occupi il patriottismo nel Decalogo, la risposta non dà luogo a titubanze: si colloca nell’ambito del quarto comandamento, il quale ci impegna a onorare il padre e la madre. È infatti uno di quei sentimenti che la lingua latina comprende nel termine pietas, sottolineando la valenza religiosa sottesa al rispetto e alla venerazione dovuti ai genitori. Dobbiamo venerare i genitori, perché essi rappresentano per noi Dio Creatore. Dandoci la vita, partecipano al mistero della creazione e meritano perciò una venerazione che rimanda a quella che tributiamo a Dio Creatore. Il patriottismo contiene in sé questo genere di atteggiamento interiore, dal momento che anche la patria è per ciascuno, in modo molto vero, una madre. Il patriottismo spirituale che ci è trasmesso dalla patria ci raggiunge attraverso il padre e la madre, e fonda in noi il corrispettivo dovere della pietas. Patriottismo significa amore per tutto ciò che fa parte della patria: la sua storia, le sue tradizioni, la sua lingua, la sua stessa conformazione naturale. (…). La patria è, dunque, una grande realtà. (…). (…) come la famiglia, anche la nazione e la patria rimangono realtà non sostituibili. La dottrina sociale cattolica parla in questo caso di società “naturali”, per indicare un particolare legame, sia della famiglia che della nazione, con la natura dell’uomo, la quale ha una dimensione sociale» (6).
Sulla stessa scia si è posto Benedetto XVI. Nel suo testamento spirituale, dell’agosto 2006 ma reso pubblico solo al momento della morte, il 31 dicembre 2022, Papa Ratzinger ha rivolto il suo pensiero alla: «… mia bella patria nelle Prealpi bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere dalla fede». Nel pensiero del papa tedesco Fede, patria e popolo costituiscono una unità inscindibile all’interno di un quadro di insieme al tempo stesso spirituale e terreno, metafisico e storico.
Né nazionalismo né globalismo
Se, dunque, Patria celeste e patria terrena, Ecclesia e città politica, nella Dottrina Sociale Cattolica, sono in un rapporto armonico, la Chiesa non ha mancato di bollare come turbatore di questa armonia il nazionalismo, inteso come egoismo nazionale nella negazione delle patrie altrui, la cui origine sta innanzitutto in una concezione totalizzante dello Stato moderno che non riconosce né la Chiesa al di sopra di sé, né i corpi intermedi al di sotto di sé, né la legittima esistenza di altre nazioni viste esclusivamente nei termini dell’utilità per il perseguimento di politiche di potenza e di supremazia “imperialistica” (7). Un errore, quello del nazionalismo, che la Chiesa, tuttavia, condanna insieme, e non disgiuntamente, al suo apparente opposto ossia il cosmopolitismo che annulla le patrie in un indistinto e falso universalismo umanitario, immanentista. Mentre la patria presuppone un ancoraggio umano, nazionalismo e cosmopolitismo, non a caso narrazioni provenienti entrambe dall’illuminismo, al contrario non riescono a garantire nessun fondamento antropologico e per questo azzerano le differenze tra uomini, popoli e fedi. O attraverso la negazione sciovinistica dell’altro oppure attraverso la fusione delle diversità nell’indistinto globale.
Per partecipare alla trascendenza dell’Uno ogni identità nazionale non deve rinunciare a sé stessa. Per questo motivo iI “locale” è il rimedio atto a sgonfiare ogni tentazione luciferina e babelica di omologazione che guarda al mondo come un unico grande mercato totalizzante nel quale possano correre incontrastati e incontrollati i flussi, oggi cibernetici, della finanza apolide e transnazionale. L’universale non è omogeneizzazione, non è uniformità e standardizzazione, non è costrizione a vivere sotto il dominio di poteri globali tecno-finanziari transnazionali. Universalità, dunque, non è omologazione, non è globalismo. Non lo è perché essa si pone sul piano verticale della Trascendenza. La globalizzazione ponendosi invece sul piano orizzontale dell’immanenza è espressione dell’orgoglio che già presiedette alla vicenda della torre babelica, la quale nella Bibbia sta ad indicare la ricorrente tentazione dell’autocostruzione del reale puntualmente destinata a sfasciarsi in un rovinoso rovesciamento delle prospettive iniziali. La globalizzazione, checché se ne dica, altro non è, infatti, che la tentazione prometeica manifesta nell’antico racconto biblico di Babele. La tentazione della costruzione, oggi mediante la potenza umana della tecno-finanza, di una torre per la scalata al Cielo onde conquistarlo senza alcuna Grazia divina. Nel racconto biblico, allo scopo di raggiungere l’obiettivo, viene suggellata una unità mondiale di tutti i popoli. Ma è in realtà un tentativo che nasce dall’orgoglio e dall’ambizione umana. L’unità così raggiunta è essenzialmente opposta a quella voluta da Dio nel suo progetto provvidenziale per le genti (Gen 11,1-9). Da qui il fallimento di questa unità autocostruita, ciò che oggi chiamiamo globalizzazione.
Dio, allorché ci invita ad allargare il nostro sguardo onde cogliere la possibilità di un bene più ampio per noi e per gli altri, non ci chiede affatto – come pretendono i globalisti, gli umanitari, i no boders, i pacifisti che non conoscono la Vera Pace, quella che non può dare il mondo – l’estraniazione da noi stessi, dalla nostra cultura, dalla nostra storia. Dio non chiede, checché ne pensino anche tanti cristiani liquidi di oggi, sradicamenti ma ci ricorda che è sempre necessario conservare le radici ben piantate nella terra patria e nella cultura del proprio popolo, nella storia del luogo natale, che sono Suoi doni. La stessa Sua Incarnazione chiede e presuppone la corporeità solida e concreta della materia, quindi anche della terra patria.
Luigi Copertino
NOTE
- La contrapposizione tra Sacro e Santo – per la quale il primo sarebbe afferente alla sacralità immanente tipica delle culture pagane e il secondo sarebbe afferente alla trascendenza inarrivabile del Dio unico proclamata dalle religioni monoteiste – è una contrapposizione rigida che nella sua astrattezza non trova netti ed invalicabili riscontri storici giacché per le stesse religioni abramitiche l’immanenza è partecipata dalla trascendenza sicché, a causa di questa partecipazione, è dalla Santità che discende per derivazione la sacralità del creato. Come messo in evidenza, a proposito del sole, dal verso poetico di Francesco d’Assisi “Di Te, Altissimo, porta significatione”. Il santo vede nel sole soltanto una creatura, quindi non deità, ma come tale, in quanto creatura, ne esalta la manifestazione immanente, per partecipazione, del Creatore.
- Per essere precisi nell’uomo sussiste una quadripartizione. Nella Rivelazione biblica, ma anche in tutte le altre Tradizioni, nel centro dell’anima umana, e solo in essa, che ha il suo corrispondente fisico nel cuore, lo Spirito Divino – Ruach – “insuffla” lo spirito personale di ciascun uomo – ruach – quale “puntualità” atta a sorreggere, perché in immediato rapporto con lo Spirito, l’intera struttura ontologica della persona. Per questo si può parlare di quadripartizione.
- C. Schmitt “I tre tipi di scienza giuridica” (Giappichelli, Torino, 2002). Carl Schmitt ripensò il suo iniziale decisionismo, che sulla scia del contrattualismo hobbesiano lo aveva allontanato dal giovanile cattolicesimo, attraverso la scoperta del pensiero di Santi Romani e di Maurice Hariou. In esso Carl Schmitt riscoprì l’antico anelito ad un pensiero giuridico concreto, non astratto dalla corporeità territoriale e comunitaria, che fu proprio, ad esempio, del sistema giuridico medioevale con le sue “libertates”, spesso faticosamente conquistate, nella meritoria ignoranza della “Liberté” astratta dell’illuminismo.
- Heinrich Rommen “Lo Stato nel pensiero cattolico”, nuova edizione Il Cerchio, Rimini, 2023.
- Fernando Massimo Adonia “Amor di patria e identità nella predicazione di Jorge Mario Bergoglio” in www.domus_europa.eu, 21.08.2024.
- Giovanni Paolo II “Memoria e identità”, Rizzoli, 2005, pp. 83-85.
- «È Nostro dovere – scriveva papa Pacelli nel 1958, nell’enciclica Ad Apostolorum principis – ricordare a tutti, ancora una volta, che è proprio la dottrina della Chiesa che esorta e spinge i cattolici a nutrire un sincero e profondo amore verso la loro patria terrena, a prestare l’ossequio dovuto, salvo il diritto divino naturale e positivo, alle pubbliche autorità, a dare il loro contributo generoso e fattivo ad ogni intrapresa che conduca ad un vero, pacifico e ordinato progresso, ad un genuino bene della patria comune. La Chiesa mai si è stancata di inculcare ai suoi figli l’aurea norma ricevuta dal suo divin Fondatore: “Date dunque a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio” (Lc 20,25); massima che si fonda sul presupposto che nessun contrasto può esistere tra i postulati della vera religione e i veri interessi della patria. (…). Ma bisogna subito aggiungere che se il cristiano, per dovere di coscienza, deve rendere alle autorità umane quello che loro spetta, non può l’autorità umana reclamare dai cittadini un ossequio nelle cose in cui esso è dovuto a Dio e non a lei stessa; tanto meno può esigere una loro obbedienza incondizionata quando intende usurpare i sovrani diritti di Dio, ovvero costringe i fedeli ad agire in contrasto con i loro doveri religiosi, o a staccarsi dall’unità della Chiesa e dalla sua legittima gerarchia. Allora il cristiano non può che rispondere, serenamente ma fermamente, come già san Pietro e gli apostoli ai primi persecutori della Chiesa: “Bisogna obbedire a Dio, più che agli uomini” (At 5,29)». Nel libro già citato di Giovanni Paolo II, il papa polacco ribadisce fermamente la necessità di evitare il duplice errore nazionalistico-cosmopolitico: «Ci si può tuttavia chiedere se questo sviluppo [nazionale] della vita sociale dell’umanità abbia raggiunto il suo definitivo traguardo. Il XX secolo non testimonia forse una diffusa spinta ad avanzare nella direzione di strutture sovranazionali, o addirittura del cosmopolitismo? E questa spinta non è forse la prova che le nazioni piccole, per sopravvivere, devono lasciarsi assorbire da strutture politiche più grandi? (…). Le vie fondamentali della formazione di ogni società passano attraverso la famiglia: su questo non vi possono essere dubbi. Ma sembra che un’osservazione analoga si addica anche alla nazione. L’identità culturale e storica delle società è salvaguardata ed alimentata da quanto è racchiuso nel concetto di nazione. Ovviamente, un rischio dovrà essere assolutamente evitato: che questa insostituibile funzione della nazione degeneri in nazionalismo. (…). Come ci si può liberare da questo pericolo? Penso che il modo giusto sia il patriottismo. Caratteristica del nazionalismo, infatti, è di riconoscere e perseguire soltanto il bene della propria nazione, senza tener conto dei diritti delle altre. Il patriottismo, invece, in quanto amore per la patria, riconosce a tutte le altre nazioni diritti uguali a quelli rivendicati per la propria ed è perciò la via per un ordinato amore sociale» (“Memoria e Identità”, pp. 85-86). Nella Luce della Rivelazione mentre viene incoraggiato il patriottismo sono al contempo avversati sia il globalismo sia il nazionalismo. Intervistato da Francesca Ambrogetti e Sergio Rubin (El Gesuita, 2010), l’attuale Pontefice ha distinto tra patriottismo e nazionalismo: «Mi piace parlare di patria, non di Paese né di Nazione. Il Paese è, in fondo, un mero dato geografico, e la nazione è un fatto legale, costituzionale. Invece la patria è ciò che ci conferisce un’identità. Di una persona che ama il luogo dove vive non si dice che è un “paesista” o un nazionalista, ma che è un patriota. Patria viene da padre; ed è la patria, come ho già detto, a ricevere la tradizione dei padri, a portarla avanti, a farla progredire. La patria è l’eredità dei padri nel presente, che spetta a noi far crescere. Per questo sbagliano sia quelli che parlano di una patria slegata dall’eredità sia quelli che vorrebbero ridurla all’eredità e non le permettono di farla crescere». Ai giovani cileni, nel Santuario Nazionale di Maipù (2018), papa Francesco ha ribadito la distinzione tra patriottismo e nazionalismo: «Ho voluto iniziare dal riferimento alla patria perché il cammino in avanti, i sogni che devono essere realizzati, il guardare sempre all’orizzonte si devono fare con i piedi per terra, e si inizia con i piedi sulla terra della patria. E se voi non amate la vostra patria, io non credo che possiate amare Gesù e che possiate amare Dio. L’amore per la patria è un amore per la madre: la chiamiamo “madre patria” perché qui siamo nati; ma essa stessa, come ogni madre, ci insegna a camminare e si dona a noi perché la facciamo vivere in altre generazioni. Per questo ho voluto iniziare con questo riferimento alla madre, alla madre patria. Se non siete patrioti – non nazionalisti, patrioti – non farete nulla nella vita. Amate la vostra terra, ragazzi e ragazze, amate il vostro Cile!». Molta parte del magistero bergogliano in tema di immigrazione andrebbe riletto alla luce del diritto – proclamato dalla Dottrina Sociale della Chiesa – a non abbandonare la propria terra natale, sicché ciò che è da combattere sono le politiche globali che provocano le dinamiche economiche, non distributive della ricchezza, le quali poi costringono molti ad emigrare dalla propria patria.