Angelo Maria Codevilla (1943-2021) è stato un professore italo-americano di Relazioni Internazionali presso quella che oggi è la Pardee School of Global Studies della Boston University. Fu ufficiale della United State Navy e dei servizi di intelligence esteri. Fece parte dello staff professionale del Comitato ristretto per l’Intelligence del Senato degli Stati Uniti e del team di transizione per l’amministrazione Reagan entrante. Codevilla fu anche uno dei pochi funzionari della comunità d’intelligence americana, forse l’unico, a spiegare a una giornalista, ai tempi edita da Mondadori, alcune connessioni della pista bulgara in relazione al tentato omicidio di Papa Giovanni Paolo II.
Le maggiori opere di Codevilla sono state tradotte in italiano: La fine della Prima Repubblica in Italia, Il carattere delle nazioni, Guida alle relazioni internazionali, La Francia di De Gaulle e si trovano su Amazon: https://www.amazon.it/Libri-Angelo-Codevilla/s?rh=n%3A411663031%2Cp_27%3AAngelo+Codevilla
Qui pubblichiamo ampi stralci di un articolo del febbraio 1993 uscito su Commentary dal titolo “Eurocaos.”
*A cura di Andrea Bianchi
Solo un anno fa, mentre i rappresentanti dei dodici governi che compongono la Comunità Europea (CE) si riunivano nella città olandese di Maastricht per firmare l’ultimo di una serie di accordi paneuropei, l’opinione pubblica era unanime nel ritenere che un’Europa unita avrebbe sfidato gli Stati Uniti dal punto di vista economico, che si sarebbe fatta carico di riordinare il mondo ex-comunista e che il suo approccio “avanzato” alle questioni economiche, sociali e ambientali aveva molto da insegnarci. In effetti, l’opinione pubblica sosteneva fortemente il desiderio della futura amministrazione Clinton di imitare l’approccio europeo alla politica industriale, all’assistenza medica e all’infanzia ed a molto altro ancora. Oggi, tuttavia, è evidente che l’Europa non si unirà secondo la visione del trattato di Maastricht, che le sue politiche economiche sono un freno per noi, che la sua parte occidentale è stata contaminata dall’accumulo di concime comunista e che il suo approccio alle questioni socio-economiche ha per lo più una morale ammonitrice da impartirci. Nel 1992 doveva sorgere Eurotopia. Invece, il 1992 è diventato l’anno dell’Eurocaos.
Il rifiuto di stretta misura del trattato di Maastricht da parte del popolo danese; l’accettazione altrettanto di stretta misura da parte dei francesi; l’abbandono da parte di Gran Bretagna, Italia, Portogallo e Spagna dei tentativi di mantenere il valore delle loro valute rispetto al marco tedesco; le rivolte contro gli stranieri e i vari Eurosummit pieni di discorsi sulla “salvezza dell’Europa”: tutti questi sono solo sintomi. L’Eurocaos in sé non è altro che la bancarotta dell’ordine politico del dopoguerra. All’interno di ogni Paese i cittadini cercano il modo di dire “no” ai politici di tutti i partiti, che percepiscono come appartenenti in realtà a un unico partito, quello della burocrazia al potere – una burocrazia che prende circa la metà del reddito dei lavoratori e che non sembra più in grado di giustificarlo.
Contrariamente alla percezione comune, la spiegazione dell’opposizione al trattato di Maastricht non è il nazionalismo. Piuttosto, è che le persone (sempre più irritate dai governi nazionali che possono controllare solo teoricamente) sono comprensibilmente caute nell’approvare un livello di governo di cui non possono avere la gestione.
Alle origini di questa visione burocratica vi sono tre fattori: il socialismo utopico, con il suo sogno di stabilire la felicità attraverso schemi governativi; la tradizione hegeliana della pubblica amministrazione, il cui apice intellettuale fu il sociologo Max Weber, che vedeva nei burocrati imparziali l’incarnazione della Ragione stessa; e il rifiuto cristiano della nozione liberale del XVIII secolo, secondo cui gli individui dovrebbero essere lasciati a se stessi per affondare o nuotare. Alla fine del XIX secolo, quindi, una curiosa coalizione di socialisti, bismarckiani di destra e clericali stava già convergendo sull’idea di quello che venne chiamato Stato sociale.
L’irreggimentazione senza precedenti della società che accompagnò la Prima Guerra Mondiale insegnò la disastrosa lezione che la razionalizzazione dell’economia da parte del governo poteva incrementare drasticamente la produzione. Il triplicarsi della produzione bellica tedesca da parte di Walter Rathenau, più di qualsiasi altro testo keynesiano o marxista, divenne l’ispirazione pratica per l’economia collettivista in seguito variamente etichettata come fascista, comunista o socialdemocratica. Il risultato fu che, mentre la guerra fratricida stava screditando lo Stato come veicolo di gloria, un crescente fascino per l’ingegneria socio-economica forniva allo Stato una giustificazione per espandere i suoi poteri più di quanto si sarebbe immaginato un rabbioso nazionalista. Proprio nel momento in cui le persone erano sempre meno disposte a dare la vita per lo Stato, diventavano sempre più disposte a conferirgli più potere su quelle stesse vite.
Ormai, però, questa giustificazione alternativa per il potere dello Stato, come il nazionalismo prima di esso, ha fatto il suo corso. Infatti, se il nazionalismo si è rivelato un massacro insensato, lo Stato sociale si è mostrato essere stagnazione economica, corruzione sociale e, soprattutto, burocrazia.
Il risultato è che un burocrate di medio livello in Europa porta a casa l’equivalente di 30.000 dollari all’anno. Ma dato che i prezzi in Europa sono quasi il doppio di quelli degli Stati Uniti, il patrimonio di questo europeo medio non è molto al di sopra della soglia di povertà ufficiale degli Stati Uniti. Una coppia di professionisti con due figli a Copenaghen o a Milano può permettersi di possedere un appartamento modesto o un’auto, ma non entrambe le cose. È comprensibile quindi che gli europei non considerino più lo Stato come un creatore di ricchezza.
L’immigrazione di milioni di persone dal terzo mondo si aggiunge a questo processo. Questi immigrati, provenienti soprattutto dal Nord Africa, non vengono in Europa per diventare belgi o italiani. Né le società europee sono minimamente in grado o (con la parziale eccezione della Francia) interessate ad assimilarli. Le economie europee pianificate, burocratizzate e assistenzialiste hanno già difficoltà a generare un numero sufficiente di posti di lavoro per il numero (in diminuzione) di giovani che producono.
L’Europa spende molto per la cultura. Su base pro-capite, il Ministero della Cultura francese spende 50 volte quello che gli Stati Uniti pagano per il National Endowment for the Arts. Ma l’establishment culturale europeo, come il nostro, dedica le sue energie a combattere tutto ciò che un tempo rendeva la civiltà europea attraente per la gente comune, compresi gli immigrati. In sintesi, l’Europa non sta né escludendo l’immigrazione né la sta trasformando in un bene a lungo termine. Il fatto che i partiti tradizionali abbiano lasciato agli estremisti la formulazione di una risposta all’immigrazione dal terzo mondo è un altro segno della bancarotta dell’establishment europeo.
Oggi è sparito l’ultimo residuo della base originaria di legittimità dello Stato europeo: la guerra. Per quanto gli europei detestassero la guerra, una percentuale sostanziale di essi sosteneva l’alleanza atlantica che teneva a bada il mostro comunista. Durante la Guerra Fredda, i sondaggi mostravano costantemente che la maggior parte degli elettori, anche per i partiti di sinistra, si opponeva al disarmo unilaterale e voleva che le truppe americane rimanessero in Europa. Oggi i sondaggi mostrano che, mentre è aumentata la percentuale di europei che vogliono gli eserciti americani sul loro continente, è cresciuta anche la percentuale di quanti sono disposti a fare tagli radicali alle forze armate nazionali (tranne che in Francia). Ciò significa che gli europei non si aspettano più che i loro governi li proteggano. Il motivo è che questi governi sono gestiti da una generazione di leader che non ispirano fiducia.
L’anziano statista francese François Mitterrand rappresenta un partito che ha ricevuto solo un quinto del voto popolare. Il tedesco Helmut Kohl ha puntato tutto sul tentativo di introdurre il capitalismo nell’Est con metodi socialisti e non ha nulla da offrire se non tasse, a perdita d’occhio. Il primo ministro britannico, John Major, è un uomo incolore che va alla deriva con il vento. In Italia, dove non esiste una vera e propria distinzione tra governo e opposizione, l’intera classe politica è largamente considerata come un gruppo di ladri.
Gli europei d’oggi non sono rivoluzionari. Esprimono la loro disaffezione nei confronti dello Stato con voti di protesta per i partiti regionali e locali e con i referendum. Ma soprattutto voltano le spalle al governo. Si ha l’impressione che pochi, se non nessuno, di loro rischierebbe la vita per impedire alle folle estremiste di precipitarsi negli edifici del parlamento, e che forse nemmeno la notizia di un’invasione straniera impedirebbe a qualcuno di sedersi a tavola per pranzo.
In breve, gli Stati sociali europei sono tanto deboli quanto grandi.
Nel 1992 i contorni di un consenso paneuropeo rimangono chiari e saldi come lo erano 40 anni fa: mai più la guerra sul continente; libera circolazione di persone e merci; stare insieme per salvaguardare e promuovere la civiltà comune. La CE ha goduto di un ampio sostegno grazie all’errata convinzione di lavorare sulla base di questo consenso. Ma ora il trattato di Maastricht ha fatto capire per la prima volta all’europeo medio che la CE sta percorrendo una strada molto diversa da quella di Adenauer e de Gaulle.
L’approccio degli uomini d’un tempo consisteva, da un lato, nell’abbattimento delle barriere alla vita economica e sociale comune e, dall’altro, in un maggiore coordinamento delle politiche governative. L’istituzione di un mercato comune doveva essere facile: bastava eliminare le restrizioni commerciali e la libera impresa avrebbe fatto il resto. I governi erano inoltre liberi di adottare politiche sempre più simili per perseguire obiettivi analoghi e gli accordi tecnocratici dovevano sostenere l’accordo così definito.
Ma già prima che Adenauer e de Gaulle lasciassero il loro incarico una generazione fa, il movimento paneuropeo iniziò a divergere dalle sue prescrizioni originarie. L’antenata della CE, la Comunità del carbone e dell’acciaio (1952), riuniva le industrie tedesche del carbone e francesi del ferro, del tutto “cartellizzate,” sotto l’egida di un’Alta Autorità internazionale – in altre parole, un super-cartello. Il risultato fu un maggior numero di persone e di merci che attraversavano le frontiere, ma non si trattava di libero scambio. La Politica Agricola Comune del 1962, che fissava una tariffa comune (elevata) sui prodotti agricoli per garantire redditi antieconomici agli agricoltori francesi, tedeschi e italiani a spese di tutti i consumatori europei, era la negazione stessa del libero mercato. Tutto questo doveva essere temporaneo, transitorio. Invece ha fornito sia il finanziamento che il modello per la CE.
L’approccio della CE all’integrazione economica è quindi l’esatto contrario del libero mercato. In ogni settore (agricoltura, automobili, computer, preservativi), la Commissione CE inizia con una tariffa esterna. Poi fa sedere i principali produttori di ciascuno dei Paesi membri, i lavoratori e i regolatori governativi di quei Paesi e stabilisce gli standard per la produzione, i prezzi e il commercio. Si tratta di accordi impliciti di condivisione del mercato. Le grandi imprese amano la Commissione europea perché praticamente garantisce loro di rimanere in vita. I più fortunati possono essere scelti come “campioni” a base di sussidi, spinti poi verso la conquista dei mercati globali. (In realtà, però, i principali beneficiari degli aiuti governativi – computer e aerei – sono in perdita).
I regolamenti della CE sono stati giustamente ridicolizzati per aver bandito dal commercio tutti i tipi di mele, tranne sei, e per aver fissato la lunghezza degli Euro-preservativi a 15,2 cm precisi, senza però toccare i monopoli di proprietà degli Stati membri, dal tabacco alle telecomunicazioni. Ma alla CE è stato ingiustamente attribuito il merito di aver abbattuto le frontiere. Certo, il traffico di camion ora scorre dal Baltico al Mediterraneo senza fermarsi alle frontiere. Ma questo perché il prodotto e la sua destinazione erano già regolamentati in precedenza.
Ovviamente i regolatori mirano a un’impresa diversa dalla semplice integrazione europea. Questa impresa è lo Stato-balia delle imprese. Non è una coincidenza che, mentre il socialismo ha acquisito una cattiva reputazione nei governi nazionali, abbia trovato una casa nella Commissione CE sotto la guida di Jacques Delors, un socialista francese non ancora convinto del fatto suo e uscito dall’Ecole Nationale d’Administration.
Ma l’effetto più importante dei regolamenti sul mercato unico della CE è stato quello di diminuire il fervore dell’opinione pubblica per l’unità europea. Per anni, i burocrati nazionali hanno risposto alle domande dei cittadini sulle nuove norme spiegando che si trattava di qualcosa richiesto dalla CE. Ciò significava che la questione era fuori dalle mani del governo e dei cittadini: poteva anche essere scesa dal cielo e opporsi ad essa non era solo inutile, ma avrebbe pure disturbato la pace dell’Europa. In effetti, la CE è diventata la fonte perfetta per una legislazione socialista invadente e pittoresca che i parlamenti nazionali sarebbero di per sé restii ad approvare per paura di una punizione pubblica.
Il trattato di Maastricht avrebbe dovuto portare l’attuale approccio alla sua logica conclusione. Il cuore del trattato è una serie di procedure per l’adozione di una moneta comune e di una banca centrale comune indipendente sul modello della Bundesbank tedesca. Non importa che la Germania non abbia soddisfatto i criteri di inflazione e deficit per l’ammissione al club; solo due dei dodici firmatari lo hanno fatto. Cosa ancora più importante, le divergenze nelle politiche economiche effettive avevano già minato il sistema di coordinamento del valore di scambio, che aveva ormai tredici anni.
Detta semplicemente, nel 1991 il governo tedesco non chiese il permesso agli altri governi della CE (e ignorò il parere della propria banca centrale) quando scambiò marchi reali con marchi dell’Est privi di valore, si impegnò a sovvenzionare l’Est e decise di pagare il tutto indebitandosi anziché tassando. Questo portò i tassi di interesse al 10%, costrinse gli altri governi della CE a seguirli e mise le valute più vulnerabili della CE (britannica e italiana) in una situazione di compressione tra bassa crescita e alti tassi di interesse. Il risultato fu che nel settembre 1992 la Gran Bretagna e l’Italia (poi la Spagna e il Portogallo in novembre) dovettero svalutare le loro monete dopo aver pagato miliardi di dollari per combattere gli speculatori nel futile tentativo di mantenere l’integrità del sistema.
Nessuno si è accorto che sarebbe stato meglio se i leader avessero preso decisioni di politica economica più competenti e avessero coordinato meglio le politiche reali, invece di lavorare su piani astratti per una nuova moneta. Le turbolenze hanno poi sollevato la domanda: vogliamo mettere il futuro economico dell’intero continente nelle mani di queste persone?
Tuttavia, se la CE è così insoddisfacente, perché i governi fanno la fila fino a Kiev per entrare? Perché la CE si presenta un affare allettante, quello che ha portato all’adesione di Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia. Il Paese povero che entra ottiene un sacco di soldi in anticipo. L’Irlanda, ad esempio, riceve oltre 1.400 dollari per ogni uomo, donna e bambino. Il denaro serve a risarcire i danni subiti dalla concorrenza e a sostenere lo stato sociale. Le grandi imprese del Paese possono vendere al grande mercato comunitario e a prezzi più alti di quelli praticati in patria. Inoltre, vengono protette dalle importazioni giapponesi e americane.
In cambio, il nuovo membro accetta gradualmente tutti i regolamenti della CE. Ciò tende a far aumentare il costo del lavoro e a far uscire dal mercato (e a far passare alle dipendenze del governo) le imprese troppo piccole o non sufficientemente allineate per rispettare le nuove regole. A lungo termine questo è un cattivo affare per i beneficiari, i quali vengono privati dell’opportunità di fare concorrenza ai Paesi ad alto costo del continente, e per Paesi come Francia e Germania che pagano il conto. Ma nel breve periodo è un buon affare per gli outsider.
Immaginate quanto sarebbe stata diversa l’unificazione tedesca se fosse stata gestita da Adenauer. Facendo leva sul suo miracolo del 1948, avrebbe permesso al sistema marcio dell’Est di disintegrarsi, consentendo agli occidentali di fare investimenti reali a prezzi stracciati. Invece di aumentare le tasse per pagare il welfare, avrebbe tagliato sia le tasse che le normative per facilitare l’ingresso degli orientali nell’economia.
E immaginate la sua risposta se un collaboratore gli avesse fatto notare che il sostegno all’azione militare per fermare la guerra in Bosnia era traballante. Adenauer avrebbe probabilmente risposto come fece nel 1954, quando affrontò l’opposizione alla creazione dell’esercito della Germania occidentale: Mettiamoci al lavoro e costruiamo questo sostegno.
La notizia peggiore dell’Eurocaos è che i politici cresciuti come amorali mediatori di favori non stanno per diventare degli Adenauer. È vero, questi politici europei hanno iniziato a comprendere che promettere, tassare e spendere di più non li renderà più sicuri del loro lavoro. Per questo ora si parla molto di privatizzazione, decentralizzazione o, in gergo europeo, di sussidiarietà. Anche i socialisti fanno campagna elettorale sulla necessità di abbassare le tasse e la stessa Svezia è al terzo anno di un processo di allontanamento dal tanto sbandierato statalismo. Tuttavia, nessuno ha iniziato a sradicare dallo Stato le vaste reti clientelari composte di aziende ricche, intellettuali della classe media o poveri beneficiari del welfare.
Sono quindi necessari nuovi politici, ma, come nei Paesi ex comunisti, questi sorgeranno solo nella misura in cui i vecchi si ritireranno. Due fenomeni infine meritano di essere osservati: il crescente ricorso ai referendum e la connessa importanza del governo locale e regionale. Entrambi consentono ai nuovi politici di costruire relazioni dirette con l’elettorato e di trovare un equilibrio decente tra la loro utilità per la società e il loro costo. Ma in Europa occidentale la decadenza e il default sono lenti e lo statalismo non è ancora completamente screditato.
Angelo M. Codevilla