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AURORA E TRAMONTI DELL’UOMO DELLA TECNICA. Di Gianluca Kamal

Oswald Spengler (1880-1936).

Nella storia delle idee Oswald Spengler gode, come ben noto è agli amanti delle grandezze tragiche evocate dalla filosofia, di una prima fila tutta sua e al riparo dall’usura del tempo e delle critiche eccessivamente corrosive. Con il suo monumentale Tramonto (1918-1922) ci ha offerto un’analisi comparativa di tutte le grandi civiltà, quella antica e occidentale in particolare, giungendo a delineare quei “Lineamenti di una morfologia della storia mondiale” alla luce dei quali possiamo oggi guardare alla comprensione dello stesso processo storico come si osservano le diverse fasi di età attraversate dall’organismo umano: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia. Ma se per un attimo volgessimo le spalle ai due tomi dell’opera fondamentale succitata e allargassimo, sempre un attimo, i nostri orizzonti alla produzione spengleriana nel suo complesso insieme caveremmo altri diamanti grezzi dalla miniera del lascito manoscritto del filosofo tedesco. E’ il caso di Der Mensch und die Technik, Beitrag zu einer Philosophie des Lebens, uno dei saggi più essenziali e controcorrente di colui che può esser definito uno dei massimi esponenti del “Kulturpessimismus”. Un libro tra i più originali, inizialmente concepito come conferenza, pubblicato nel luglio 1931 grazie al quale, si può dire, si avviò la decisiva penetrazione del pensiero di Spengler in Italia, seppur mitigata nel contesto storico del regime fascista (lo stesso Mussolini si professò avido lettore delle tesi del pensatore di Blankenburg). Uno stile intriso di stoicismo glaciale e motivi d’eroismo marmoreo, ovunque presenti e ben visibili persino ad intelletti non iniziati alle problematiche filosofiche e alle dispute scientifiche, che sebbene bollati da un beffardo Benedetto Croce come “atteggiamenti da imbecille disperato”  (La Critica , 30, 1932), ancor oggi paiono ridestare l’interesse per la strenua attualità delle riflessioni esposte. E per attualità intendiamo, per motivi diremmo oggi “bioetici”, le profetiche tesi circa l’organizzazione mondiale, la tecnica, la violenza. Cosa pensare dell’”organizzazione” dell’amore, del peso crescente dell’assistenza chimica e psicologica nella sessualità o persino nel parto, dell’eugenetismo, ieri condannato e oggi sempre più silenziosamente imposto dagli “esperti” e tacitamente accettato dalle masse? La rivoluzione conservatrice tedesca, da Sombart a Schmitt, da Jünger al Nostro, conteneva già in nuce alcune di questi deragliamenti della civiltà. Ed appare chiaro, in virtù degli esempi portati, come il prossimo titano non possa esistere senza la collaborazione dei vari scienziati che gli promettono eterna vita, poiché il titano non esiste durevolmente se non sostituisce Dio, o l’idea di Dio, con la tecnica (a questo proposito i romanzi di Michel Houllebecq possono rivelarsi molto utili alla comprensione del moderno prometeismo dilagante).

Addentrandosi nelle viscere dell’intenso procedere del saggio si giunge al discorso intorno all’uomo inteso come belva, i cui sviluppi abbandonano i toni del disincanto per tingersi di più acuto e inquieto pessimismo. Al centro, vi è la vista, intesa come tramite tra l’anima, il pensiero e lo spazio esterno, sentita come superiore per importanza rispetto all’oggetto tecnico in sé. L’occhio è cardine del nesso tra il paesaggio aperto e sterminato e l’apertura di stampo faustiano delle prospettive spaziali aperte. La visione a cui si riferisce Spengler è quella dell’animale da preda o da rapina, non certo quella propria del poeta romantico, e l’uomo è condannato per natura ad assumere il ruolo di predatore, in una dinamica tensione tra creazione e distruzione. “Ogni grande uomo d’azione è “poeta” […]. Essere poeta significa avere idee. Visione è idea.” Una poesia marziale, selvaggia, cantata sulle ali della fascinazione, candidamente confessata,  verso i “fiori del male” della modernità e della tecnica, sul cui dominio, reso possibile da quella misteriosa alchimia tra anima dell’essere umano, il suo occhio e lo spazio prospettico sorge la Storia stessa, vita e morte delle grandi civiltà o “alte culture”.

Nel dramma del XXI secolo, dove l’affievolirsi delle identità e delle differenze incede senza tregua e con passi pesanti, ha senso meditare sull’estetica tragica descritta da Spengler? Oggi la “macchina” si è fatta minuscola, a tratti invisibile, “digitale”, virtuale. Più che il “frutto del pensiero umano”, come insegnava il prussiano, oggi riflette, in forme sempre più perfette, l’antico desiderio dell’uomo di avvicinarsi a Dio. L’intero destino dell’umanità, lo avevano ben compreso Spengler e Jünger, ruota attorno all’ammonimento millenario: Eritis sicut Deus.

Gianluca Kamal

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