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SOMMARIE RIFLESSIONI SUL PATRIMONIO CULTURALE EUROPEO E LA CONVENZIONE DI FARO. Di F.M. Agnoli

Pressoché all’improvviso, dopo 15 anni dal sua varo, l’Italia ha ratificato la “Convenzione-quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società”, più conosciuta come “Convenzione di Faro” dalla località portoghese dove è stata varata nel 2005, entrata in vigore (ma non per l’Italia, che a quella data non aveva ratificato) nel 2011 una volta avvenuta la ratifica di almeno dieci paesi aderenti al Consiglio d’Europa. Nonostante l’apprezzamento del Fondo Ambiente italiano (Fai), per il quale la Convenzione  cambia la visione sul patrimonio culturale, inteso non più come un insieme di oggetti, ma come “risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione”, la ratifica italiana ha riscosso in parlamento l’ assoluta contrarietà  dell’opposizione di centro-destra, cui hanno fatto eco, pro e contro,  interventi  mass-mediali, per lo più incentrati (ad uso di una disinformatissima opinione pubblica) sul rischio  che persone di cultura islamica (che – sia detto fra parentesi – fa parte a tutti gli effetti del patrimonio culturale europeo) pretendano  la “vestizione” (magari arruolando un erede del famoso “braghettaro” a suo tempo all’opera per rivestire i nudi della Cappella Sistina)  se non addirittura la rimozione delle immagini di nudo – con particolare riguardo alla statuaria – così frequenti  per l’eredità greco-romana, ma non solo, nel nostro patrimonio culturale.

  Come molti provvedimenti di matrice europea la Convenzione è intrisa di  retorica, non solo nel “preambolo”, dove si afferma la necessità di “collocare la persona e i valori umani al centro di un concetto allargato e trasversale del patrimonio culturale” da gestire quale risorsa di durevole sviluppo e di qualità della vita, ma anche in quelle che dovrebbero essere  le regole di diritto positivo in materia di utilizzo e conservazione. La definizione di “patrimonio culturale” è data dall’art. 2, che al comma a) lo definisce  “un insieme di risorse ereditate dal passato che alcune persone identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni costantemente in evoluzione”. Ne fanno parte non solo i tradizionali prodotti artistici , ma “ tutti gli aspetti dell’ambiente derivanti  dall’interazione  nel tempo fra le persone e i luoghi”. La Convenzione riconosce poi l’esistenza, nella generalità dei cittadini europei, tutti partecipi del comune patrimonio culturale, di gruppi, definiti  “comunità patrimoniali”, formati da persone (non viene precisato il numero) che, attribuendo valore  a suoi  aspetti specifici, ne auspicano il permanere e la  trasmissione, nel quadro dell’azione pubblica, alle generazioni future (art. 2 lettera b).

  Può esservi un eccesso di soggettivismo, in quanto la lettera   della norma attribuisce  la natura di “patrimonio culturale”  alle risorse che i cittadini europei hanno ereditato dal passato non in base (o anche in base)   a criteri oggettivi, ma al fatto che  “alcune persone” (l’uso del plurale fa ritenere che una sola non basti, ma – domanda – due possono essere ritenute sufficienti?)  le identificano “come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni costantemente in evoluzione”. Quanto meno dubbio il significato delle ultime tre parole di tale definizione, sembrando eccessivo dedurne che  non fanno parte del patrimonio culturale credenze, conoscenze e tradizioni che anziché evolversi si mantengono identiche nel tempo (fra l’altro, la Chiesa ortodossa, che in questo patrimonio riveste un grande ruolo, considera la stabilità e immutabilità nel tempo un valore fondamentale). In ogni caso, in evoluzione o no, il riconoscimento dell’aspirazione della  “comunità patrimoniali” a  mantenere e trasmettere alle generazioni future aspetti specifici di un patrimonio culturale inclusivo di  “tutti gli aspetti dell’ambiente  derivati  dall’interazione nel tempo fra persone e luoghi” rassicura chi, come me, le tiene spiritualmente molto care, sul futuro delle località montane trentine e sudtirolesi, perché l’interazione fra uomo e ambiente le ha profondamente intrise di cattolicesimo e come tali la Convenzione vuole siano trasmesse alle generazioni future, almeno finché rimarrà una pur ridotta  “comunità patrimoniale” che intenda preservarle.

  L’esempio appena fatto consente di valutare la Convenzione di Faro come ispirata a  criteri opposti  a quelli che, in altri contesti, i suoi critici  rimproverano (spesso a ragione) a una politica che, sotto l’influsso dell’Economia e del Mercato, mira all’omologazione dell’intera popolazione mondiale, riducendo e, tendenzialmente, annullando  le differenze anche culturali che ostacolano la realizzazione di un   modello unico di cittadino produttore-consumatore. E’ un aspetto che sembra non essere stato preso in considerazione dai critici che, concentrando la loro attenzione  in particolare sulle disposizioni di cui agli artt. 4 e 7, la considerano invece funzionale, per le censure e le ibridazioni conciliative  che potrebbe comportare, a tale modello. Le disposizioni di cui all’art. 4 dopo avere attribuito  ad ogni persona, singola o in comune con altre, sia il diritto di godere e di contribuire all’arricchimento del patrimonio culturale, sia la responsabilità di rispettare il patrimonio culturale altrui come il proprio e, di conseguenza,  l’intero patrimonio comune dell’Europa, al comma contrassegnato dalla lettera c) sancisce che l’esercizio del diritto al patrimonio culturale può subire solo le restrizioni necessarie, in una società democratica, alla protezione dell’interesse pubblico e dei diritti e libertà altrui. Dal momento che la Convenzione ha ad oggetto il patrimonio culturale dell’Europa nella sua interezza,  la distinzione fra  patrimonio culturale proprio e altrui (entrambi parti del comune patrimonio europeo) va necessariamente riferita  o a diversità di interpretazioni, o, soprattutto, agli aspetti specifici di cui alla lettera b) dell’art. 2, particolarmente apprezzati e coltivati dalle singole   comunità patrimoniali, che potrebbero. in ipotesi, confliggere fra loro. Di conseguenza, il successivo art. 7 pone, in via di prevenzione,  agli Stati contraenti l’obbligo di incoraggiare la riflessione sull’etica e i modi di presentazione del patrimonio culturale e  il rispetto  delle sue diverse interpretazioni, da valutare e diffondere quali risorse capaci di facilitare la coesistenza pacifica e la reciproca comprensione. Il che tuttavia  non esclude l’eventualità di conflitti, da  risolvere  attraverso  procedure di conciliazione, che dovrebbero gestire equamente i casi in cui comunità diverse attribuiscano valori contraddittori allo stesso patrimonio culturale (art. 7 lettere a) e c). Disposizioni oggetto di forti critiche da parte di chi si è chiesto quali possano essere i “valori contraddittori”  di un patrimonio culturale    per definizione comune a tutti gli europei  e ha avanzato il  timore che la mediazione conciliativa comporti la censura (con conseguente limitazione del diritto di godimento) di sue parti, sgradite a questa o quella comunità patrimoniale. Il riferimento più frequente di tali polemiche  è a motivazioni religiose, in particolare islamiche, nei confronti delle immagini di nudo o di opere ritenute  lesive  di aspetti e/o protagonisti dell’Islam (è stato fatto l’esempio dell’affresco di Giovanni da Modena, in una cappella della basilica di San Petronio a Bologna, raffigurante Maometto nel più profondo dell’inferno). Una eventualità che i critici hanno, per evidenti ragioni politiche, rapportato all’attuale  fenomeno migratorio, ma che, anche prescindendone,  non può essere  esclusa dal momento che fra le comunità patrimoniali ve ne saranno, per effetto di antichi e consolidati insediamenti in territori europei, di cultura islamica, quindi  particolarmente attente ad aspetti specifici connessi al loro credo religioso.

  Ha replicato il ministro dei Beni  culturali Dario Franceschini che  la Convenzione non comporterà alcuna censura e che eventuali, temporanee limitazioni dipenderanno esclusivamente da fenomeni come la pandemia di Covid.19, che ha determinato la chiusura di musei, teatri e altri luoghi di cultura. A suo sostegno una parte della stampa, oltre a richiamare l’art. 6 della Convenzione, che fa salvi in ogni caso i diritti e le libertà fondamentali dell’Uomo, ha rilevato che nessuno degli effetti temuti si è verificato nei paesi che già da qualche anno hanno provveduto alla ratifica. Argomentazioni non troppo persuasive dal momento che l’esemplificazione del ministro riguarda unicamente il settore della sicurezza pubblica, quindi le restrizioni attribuite dalla Convenzione a  ragioni di “interesse pubblico”, ma trascura quelle che vengono espressamente  connesse a diversità di interpretazioni e al potenziale conflitto di  “valori contraddittori”. L’esempio poi di quanto avvenuto finora negli altri Stati ratificanti (per altro non hanno ratificato – alcuni nemmeno sottoscritto – la Convenzione tutti i paesi europei in possesso dei più rilevanti patrimoni culturali, quali Francia, Germania, Grecia, Regno Unito, Russia) non esclude che ciò che non è avvenuto fino ad oggi  non possa avvenire domani o in un paese diverso, tanto più che nemmeno viene specificato se quei paesi abbiano emanato le leggi di attuazione indispensabili per rendere operante la Convenzione. Nemmeno va trascurato  che in Italia già si sono verificati, anche con risvolti giudiziari a livello  nazionale ed europeo, conflitti sulla presenza del crocifisso nelle scuole e sull’allestimento dei presepi natalizi in luoghi pubblici.  Sbagliato, infine, limitare la possibilità di  “valori contraddittori” e  “conflitti culturali” al campo religioso, trascurando quelli dovuti a valutazioni storico-politiche. E’ il caso, a Roma,  del quartiere romano dell’Eur e delle  sue statue e costruzioni  “fasciste” e, a Bolzano,  del gigantesco bassorilievo di Piazza del Tribunale con Mussolini a cavallo e la scritta “Credere-Obbedire-Combattere”, risolto, in via conciliativa ante litteram fra conservatori e demolitori, da quella Giunta provinciale con l’apposizione di una striscia luminosa trilingue riportante un celebre detto  della scrittrice  Hannh Arendt: “Nessuno ha diritto di obbedire”.

  In definitiva, dato atto della presenza di elementi positivi e  altri negativi ( incluse  le retorica e la mancata previa considerazione dei motivi che hanno  indotti gli Stati europei con i maggiori patrimoni culturali ad astenersi), il giudizio sulla Convenzione non può che restare sospeso fino alla emanazione delle leggi nazionali di attuazione, indispensabili per l’effettiva operatività di tutte la Convenzioni-quadro   per effetto di una normativa generale in materia nel caso confermato dal disposto dell’art. 6  della  Convenzione. Vi si stabilisce, fra l’altro, difatti, che nessuna sua misura “potrà in alcun modo essere interpretata al fine di generare diritti immediatamente suscettibili di diretta applicabilità”. Un punto sul quale il Consiglio d’Europa ha ritenuto opportuno tornare con apposita nota esplicativa per ribadire che “nessuna disposizione della presente Convenzione può garantire diritti agli individui tramite la mera ratifica, senza azioni legislative da parte dei singoli Stati”. Azioni legislative che dovranno indispensabilmente dare contenuto concreto al concetto di “comunità patrimoniale” e stabilire  modalità e procedure della  conciliazione di cui all’art. 7.

Francesco Mario Agnoli

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