«Tutto è bene, tutto è permesso e nulla è detestabile, sono giudizi assurdi» chiosava Albert Camus nella sua apologia dell’uomo assurdo. Un uomo che tocca un’apatia sacrale, una conquista d’elezione e d’impegno squisitamente individuale. Alla vista del mondo può anche assumere l’apparenza dell’infermità. La società umana invece ha bisogno di intenti e norme condivise, possibilmente semplici, in non grande numero, e di fatti interpretabili. Il libero arbitrio non potrà mai essere interamente derogabile, per quanto si tenti di ammansire l’uomo. La disciplina per essere davvero efficace deve essere scelta. La forza della persuasione riguarda la coerenza del ragionamento quanto l’esperienza personale, il carisma. La proliferazione delle leggi in meandri di complicazioni e cavilli, nella pretesa sempre troppo razionale dell’ambizione al controllo sociale è l’origine di un certo grado d’ingiustizia e talvolta del crimine, pensiero paradossale che si è riproposto più volte nella cultura europea, da Seneca a Sade. «Chi vorrebbe affermare, contro ogni evidenza, che siamo nati tutti con le medesime forze?» è la nota presa di posizione del Marchese.
Lo scorgere l’assurdità di ciò che circonda assimilandola come pulsione vitale è diventata frequentemente la ricerca dell’eccesso, o il lassismo della propria condotta. Epicuro, così bistrattato dai tanti che lo hanno capito male, avvertiva che l’uomo che ha in pregio il proprio piacere non nega il mondo, le emozioni prodotte dai sensi, non si ritrae dall’esperienza, al contempo non si lascia sopraffare dal desiderio, rifiuta di essere ingordo fino alla nausea. Epicuro nella Lettera a Meneceo scrive: “cercare il piacere è dolore, non cercarlo è già condizione del bene (…) quando diciamo che il piacere è il fine, non intendiamo quello dei dissoluti, ma l’assenza di dolore nel corpo e di disordine nell’anima”. Un uomo che prima di chiedere agli altri domanda quasi più che il possibile a se stesso, un uomo che non propende per la giustificazione. Un equilibrista, ma non un calcolatore, nel e con il mondo.
Nel camusiano “Mito di Sisifo” «pensare è voler creare un mondo, è partire dal dissidio fondamentale che separa l’uomo dalla sua esperienza, per trovare un terreno d’intesa secondo la sua nostalgia». Pensare è creare, apertura, fino ad aspirare alle vette della lucidità che autoconsuma, ma può anche essere, e lo è spesso, una prigione invisibile, falsificazione senza posa. Ciascuna nostalgia particolare è nostalgia prenatale, quella della reversibilità degli eventi, volatile come un sospetto, nell’indisponibilità del mondo a cui la coscienza non può far altro che adeguarsi, nostalgia paradisiaca, dell’istante libero dal tempo, prima dell’inizio in cui Adamo aprì gli occhi e il Sole e la Luna incominciarono ad esistere.
Kierkegaard affermava che «nella propria sconfitta il credente trova il proprio trionfo». E la certezza della sconfitta, sia che ci si incolli al proprio ruolo sociale o meno, non può mancare all’uomo avveduto. Ma qui si vuole partecipazione, la sconfitta va cercata, lo sforzo profuso. L’esito deve coincidere con il disinteresse per tale esito. Un cammino impervio, in cui lecitamente si può insinuare il dubbio. L’uomo è anche fragile, e lo è tanto più quanto è preoccupato di preservare la propria esistenza e si rassicura con il pensiero dell’avvenire. Accorata la preghiera di Pindaro: «anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il possibile». A ben vedere il possibile è così drasticamente indeterminato, il soffocamento e l’annichilamento hanno un loro ruolo nel possibile. Piuttosto quello di Pindaro è un grido ribelle contro la speranza in quanto generatrice di menzogne nel giogo dei più abili e cinici.
Emmanuel Carrère in un suo controverso best-seller, “Il Regno”, mette in scena Giacomo in parziale opposizione a Paolo di Tarso: «l’importante è avere compassione, aiutare i poveri, non essere presuntuosi, e chi pur non credendo alla resurrezione di Cristo segue questi prìncipi è mille volte più vicino a Cristo di chi crede in Lui e se ne sta con le mani in mano», mentre Paolo «asserisce che Dio salverà non chi ascolta parole sagge, ma parole folli». La questione è anche altra: il pensiero vuole tutto, perfino l’impossibile. A maggior ragione quando si prefigge di trovare il senso recondito di ogni cosa. Ritornare al valore della rinuncia, appare quanto di più contemporaneo e necessario. Ma la rinuncia divampa e trafigge. Nel Vangelo di Luca, Gesù è perentorio: «chi viene a me senza odiare il padre, la madre, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo (…) sono venuto a gettare fuoco sulla Terra». La compassione indossa una diversa veste, racchiude ambiguità, è l’abbandonare in vista di un bene più grande. L’ascesi sempre esige uno stoico disinteresse, gratuità, fino a pervenire al caso parossistico dell’apparente insensatezza. Per Carrère è il bisogno di ancorare l’angoscia alla certezza, «la scelta di dare un senso a una vita invivibile interpretandola come una serie di prove imposte da Dio».
P.A.