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LA PERSONALITA' DEL CONCEPITO E LA RESPONSABILITA' MEDICA. Di Roberto De Albentiis.

Pochi temi dividono e appassionano tanto il mondo dottrinario e giurisprudenziale così come l’opinione pubblica quanto il tema dell’aborto e il tema, certo più concreto e sentito (tanto per la copertura costituzionale del fondamentale diritto alla salute ex art. 32 Cost. quanto per la lettura e menzione di numerosi fatti di cronaca), della c.d. malasanità e della responsabilità medica, quest’ultima oggetto negli anni di vari pronunciamenti giurisprudenziali e di novelle legislative (ultima delle quali è la l. 24/2017, che ha introdotto il nuovo art. 590 sexies cp).

Ed è proprio un intreccio di questi due temi l’oggetto di tale articolo, che proverà a commentare una recente ed interessante pronunzia della Suprema Corte di Cassazione al riguardo (la n. 27539/2019, sez. IV, 20 giugno, Pres. Piccialli e Rel. Esposito, qui da poco rinvenibile https://www.studiocataldi.it/articoli/35083-responsabilita-medica-durante-il-parto-il-feto-diventa-persona.asp  ), che certamente segna un punto importante nella tutela del concepito.

Innanzitutto, pur dal 1978 prevedendo il nostro ordinamento l’aborto (chiamato “interruzione volontaria di gravidanza”) con la famosa l. 194/1978, si è comunque sempre trattato il concepito come un soggetto di diritto, non solo nel Codice Civile (artt. 1 e 5 e artt. 320, 462, 715 e 784, dei quali è evidente l’impronta romanistica, esemplificata dal brocardo “nasciturus pro jam nato habetur quotiens de commodis ejus agitur”), ma nella stessa citata l. 194 (art. 1, citazione indiretta), nella l. 40/2004 (art. 1) e, estensivamente, secondo interpretazione della giurisprudenza costituzionale, ex artt. 2, 3 e 31 Cost.; da ultimo, inoltre, merita menzione il nuovo art. 593 bis cp (relativo all’interruzione colposa di gravidanza, con pena prevista da un minimo di tre mesi ad un massimo di due anni di reclusione); certamente vi è un’incoerenza del sistema, data la previsione di pratiche che comportano la soppressione del concepito, o, nel caso della l. 194/1978, la netta prevalenza della tutela della decisione della gestante a scapito del nascituro come anche del genitore e padre, e tuttavia, almeno formalmente, esso è e rimane soggetto di diritto nell’ordinamento vigente.

La tutela del concepito, quindi, è sia civile che penale, così come il quadro della responsabilità medica è sia civile che penale che, anche, amministrativo.

Secondariamente, la legge sulla responsabilità medica non si applica al solo dottore e medico chirurgo, ma a tutte quelle figure con cui il paziente entra in c.d. contatto (sociale), ossia, pure, il personale paramedico, gli infermieri, i dentisti, le ostetriche; ed è proprio questo il caso in questione.

Veniamo ai fatti (descritti minuziosamente anche su http://www.quotidianosanita.itm/lavoro-e-professioni/articolo.php?articolo_id=75129 ): nel caso di specie, a Salerno, un’ostetrica è stata denunciata e poi condannata (ad un anno e nove mesi di reclusione) per aver omesso il monitoraggio cardiotografico e aver impedito, così, che la sofferenza fetale fosse scoperta e che fossero adottate le manovre urgenti e indispensabili per scongiurare la morte del feto per asfissia perinatale in sede di travaglio; l’ostetrica è stata ritenuta colpevole della grave accusa di omicidio, e non di semplice aborto colposo (conferma della condanna di primo grado e di appello, anche se si tratta di una condanna sospesa poi con la condizionale). La gestante era ricoverata presso una clinica a seguito della rottura del sacco amniotico, e sottoposta ad un tracciato cardiotografico, eseguito dal medico di turno, che rilevava l’assenza di contrazioni e di dilatazione del collo uterino; successivamente, la partoriente era trasferita in sala travaglio e sottoposta ad un nuovo tracciato, con travaglio che, ad avviso dell’ostetrica assistente, procedeva lentamente, in quanto la dilatazione del collo uterino era di 3-4 cm. La paziente veniva quindi trasferita in sala parto, ove, su suggerimento dell’ostetrica, le era praticata l’anestesia epidurale per i fortissimi dolori nel frattempo sopraggiunti. Nelle ore successive, non riuscendo il medico a rilevare il battito cardiaco del bambino, sollecitava l’ostetrica a praticare un nuovo esame cardiotografico con un apparecchio che, secondo la stessa, non registrava nessun battito. A questo punto il ginecologo praticava la manovra di Kristeller e, dopo alcune spinte espulsive, il feto era estratto dall’ostetrica e affidato alle cure del pediatra e dell’anestetista rianimatore, che non potevano fare altro che, purtroppo, constatare l’assenza di battito cardiaco, respirazione, riflessi, movimenti; in considerazione di ciò, e dei seguienti esami autoptico ed istopatologico, i consulenti concordavano nel riferire che il feto non aveva mai respirato e quindi era nato morto per asfissia perinatale.

Il feto, quindi, che nasce, dopo la rottura del sacco amniotico, è una persona a tutti gli effetti, e come tale, se l’ostetrica ne procura la morte per asfissia, risponde di omicidio colposo: secondo la Cassazione, il momento della differenza tra aborto e omicidio (in cui si integra la fattispecie criminosa prevista ex art. 589 cp), in quanto il feto inizia ad essere considerato persona a tutti gli effetti, è l’inizio del travaglio, ossia quando il feto raggiunge l’autonomia, in conformità con l’orientamento giurisprudenziale inaugurato nel 2008 (“in tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell’inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell’autonomia del feto, coincidendo quindi con la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina”); non rileva invece più il criterio del distacco dall’utero materno, che risulta abbandonato in quanto non offerente riferimenti temporali precisi.

Contro l’imputata pesava la scorretta esecuzione del tracciati: non si rileva il battito cardiaco proprio mentre il feto sta mettendo in atto i meccanismi di compenso, impedendo così al medico di intervenire; l’ostetrica, inoltre, rassicurava il sanitario perché non si accorgeva della sofferenza asfittica, e non si può rovesciare la responsabilità a carico di altri soggetti presenti in sala parto. Difatti, la Suprema Corte di Cassazione, riprendendo in sei specifici punti quanto veniva dedotto in Appello: rileva: “l’assenza di una tempestiva rilevazione della sofferenza asfittica, circostanza che avrebbe imposto di accelerare al massimo la fase espulsiva e l’estrazione del feto”; “il mancato espletamento dei necessari monitoraggi cardiotografici (…)”; “la scorretta esecuzione del secondo e del terzo tracciato (errore tecnico nel posizionamento delle fasce del tocodinamometro)”; “il rilievo per cui la mancata o scorretta esecuzione dei tracciati non consentiva la rilevazione del battito cardiaco nel periodo in cui il feto stava mettendo in atto i meccanismi di compenso, precludendo così la possibilità di intervenire scongiurando la morte del feto mediante un taglio cesareo o la ventosa ostetrica (…)”; soprattutto, “le erronee rassicurazioni formulate al ginecologo sul regolare andamento del travagli oda parte dell’ostetrica nonostante la prosecuzione della sofferenza fetale per non meno di 30 minuti”; infine, “l’impossibilità di riversare la responsabilità a carico di altri soggetti presenti in sala parto”.

Ancora, in relazione al centrale punto delle “erronee rassicurazioni” (e collegato con l’impossibilità di chiamare altro personale medico in correità), si legge sempre in sentenza: “nel caso di specie, la sentenza impugnata…ha…evidenziato che l’ostetrica, in conseguenza degli errori e delle omissioni precedenti commessi in violazione dei propri doveri istituzionali, non aveva sollecitato l’attenzione del medico, il quale, se avesse conosciuto tempestivamente la situazione di sofferenza fetale, sarebbe potuto intervenire tempestivamente, scongiurando il verificarsi dell’evento letale”.

Infine, quanti ai profili sostanziali e procedurali della comminazione della pena, nulla viene censurato a proposito delle decisioni dei precedenti giudicanti, ritenendo corretta la loro valutazione (“la commisurazione della pena è stata correttamente giustificata in riferimento alla complessiva negativa valutazione della vicenda criminosa e della personalità dell’imputata”), né veniva dato seguito alle doglianze della ricorrente quanto alla violazione del principio di tassatività sul rapporto tra delitto di omicidio ex artt. 575, 578 e 589 cp e morte del feto: “l’inclusione dell’uccisione del feto nell’ambito dell’omicidio non comporta una non consentita analogia in malam partem, bensì una mera interpretazione estensiva, legittima anche in relazione alle norme incriminatrici”, si legge in conclusione.

Gli avvocati difensori dell’imputata, nella difficoltà e impossibilità di scagionare la propria assistita, avevano chiesto ai giudici di derubricare l’imputazione da omicidio colposo ad aborto colposo; giuridicamente parlando, potendosi parlare di omicidio se la morte è inferta ad un soggetto di diritto, ne consegue che, in caso di non umanità del soggetto soppresso, si parla di aborto. Ma quando avverrebbe quindi il passaggio da essere umano a soggetto di diritto? La difesa aveva provato a incentrare la strategia difensiva sul concetto di persona fisica ex art. 1 cc; essendo la morte del piccolo avvenuta precedentemente la prima boccata di ossigeno, si doveva trattare di aborto e non di omicidio. La Cassazione ha respinto tale tesi difensiva, anticipando il momento al travaglio.

I giudici della Cassazione osservano che la condotta penale di procurato aborto (ex art. 19 l. 194/1978) si realizza in un momento precedente il distacco del feto dall’utero materno, mentre la condotta ex art. 578 cp si realizza dal momento del distacco del feto dall’utero materno, durante il parto – se si tratta di un feto – o immediatamente dopo il parto – se si tratta di un neonato – , con la conseguenza quindi, si legge sempre in sentenza, che “qualora la condotta diretta a sopprimere il prodotto del concepimento sia posta in essere dopo il distacco, naturale o indotto, del feto dall’utero materno, il fatto, in assenza dell’elemento specializzante delle condizioni di abbandono materiale e morale della madre, previsto dall’art. 578 cp, configura il delitto di omicidio volontario di cui agli artt. 575 e 577, n. 1, cp.”

I reti di omicidio e di infanticidio-feticidio, indi, leggiamo ancora, “tutelano lo stesso bene giuridico, e cioè la vita dell’uomo nella sua interezza. Ciò si desume anche dalla terminologia adoperata dall’art. 578 cp – “cagiona la morte” – identica a quella adottata per il reato di omicidio, in quanto evidentemente “si può cagionare la morte soltanto di un essere vivo”. Il legislatore, quindi, ha sostanzialmente riconosciuto anche al feto la qualità di uomo vero e proprio, essendo “la morte…l’opposto della vita” (ed essendo la vita la base dell’esercizio di qualsiasi diritto umano e sociale), ed essendo di fronte a due norme penali incriminatrici che vigilano e tutelano il supremo bene della vita umana fin dal suo momento iniziale.

Per la Suprema Corte, gli artt. 575 e 578 cp specificano cosa sia da comprendere nel concetto di “uomo”, tale da includere anche il “feto nascente” e, anche, “prima di detto limite la vita del prodotto del concepimento è tutelata da altro reato, il procurato aborto.”; ancora: “…il nascente vivo non è più feto, né in senso biologico, né in senso giuridico, bensì persona”, così che, se “in un parto, naturalmente o provocatamente immaturo”, il nascente stesso è “un essere vivo” e, quindi, “la sua uccisione volontaria costituisce omicidio, o feticidio, qualunque sia stata la durata della gestazione”. Ancora, come è questo il caso concreto in questione, “in caso di parto indotto prematuramente e fuori dalle modalità consentite dalla legge, che si concluda con la morte del prodotto del concepimento (sia esso feto o neonato), nella conclamata assenza di ogni elemento specializzante, e fermo il principio irrinunciabile secondo cui la tutela della vita non può soffrire lacune, l’illecito commesso sarà un omicidio o un procurato aborto a seconda che il nascente abbia goduto di vita autonoma o meno.”

Molto interessanti, tali punti (in particolare al riguardo della durata, anche minima, della gestazione, dell’equiparazione di feto e neonato ai fini della loro tutela e dell’omnicomprensività della tutela della vita), come interessante, quindi, a proposito di tutela del concepito, quanto ancora affermato in sentenza: per la Suprema Corte di Cassazione, l’attuale formulazione della norma che punisce l’uccisione di un uomo e l’interpretazione da essi fornita non presentano alcun dubbio di costituzionalità: “tale disciplina”, si legge, “appare priva di profili di incostituzionalità, innestandosi in un quadro normativo giurisprudenziale italiano e internazionale di totale ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si è poi estesa fino all’embrione”; conferma, questa, del carattere personalista del nostro ordinamento e soprattutto della nostra Costituzione, che da essa trae ispirazione.

Se certamente questi sono i punti positivi e di forza di tale sentenza, per certi versi inedita, per altri versanti vi sono dei punti criticabili e censurabili: innanzitutto, la menzione dell’espressione “durante il parto”; esso, difatti, è composto da più fasi. A quale di esse bisogna quindi fare riferimento? I giudici della Cassazione affermano che, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, il momento in cui noi magicamente diventiamo persone è quello del travaglio. Non più come si asseriva una volta nel momento in cui c’è il distacco del nascituro dall’utero, ma nel travaglio. Da ciò si conclude che, dal momento che il piccolo è morto durante il travaglio, questi era soggetto di diritto, ma provocare la morte di un soggetto di diritto significa incorrere nel reato o di infanticidio o di omicidio.

Altro aspetto importante: qual è il momento in cui un essere umano diventa persona? Per il diritto esso è stato fissato arbitrariamente e convenzionalmente. L’art. 1 cc e i giudici hanno stabilito che si acquistano i pieni diritti al momento della nascita e nel momento esatto del travaglio; e, tuttavia, che differenza passa tra un bambino che si è staccato dall’utero materno – passibile di aborto se non può sopravvivere ad esempio quando gli mancano i reni e il cervello – e il medesimo bambino qualche istante dopo che è nel bel mezzo di un travaglio? Perché il primo per il diritto non è persona fisica e il secondo sì? Quale differenza biologica così scriminante relega il primo a cosa e il secondo lo eleva, in modo prodigioso, a status di persona? Inoltre, come il bambino nel ventre della madre non è perfettamente autonomo perché dipende da lei per l’energia ricavata dal nutrimento, che lei gli fornisce, e per l’ambiente protetto in cui lo custodisce, così non lo è nemmeno dopo, necessitando di molte cure e assistenza.

Va da sé poi che porre sotto l’egida della mera convenzione lo stabilire quando diventiamo persone e quando cessiamo di esserlo provoca enormi rischi per tutti noi: e se domani per il diritto noi smettiamo di essere persone quando finiamo in coma oppure quando non possiamo più guarire da una malattia grave? Una volta c’era la razza a far da spartiacque tra persone e non persone, oggi semplicemente i criteri sono cambiati (quantomeno espungendo i criteri razziali e lasciando invece intatti i criteri eugenetici che da subito sono stati i criteri fondanti delle legislazioni abortive nel mondo).

Inoltre, se  è soggetto di diritto anche il concepito salta la distinzione giuridica tra omicidio colposo e aborto colposo e dunque anche, più semplicemente, tra omicidio e aborto, perchè anche l’aborto sarebbe un omicidio, solo compiuto prima della nascita. E dunque, a dar retta al senso di questa affermazione, la l. 194/1978 dovrebbe essere dichiarata incostituzionale, come peraltro, più volte, è stato tentato di fare, investendo la Corte Costituzionale di tale questione. E del resto, si potrebbero usare le medesime argomentazioni articolate dalla Suprema Corte di Cassazione per chiedere l’abrogazione della l. 194/1978: se il bambino durante il travaglio non può essere ucciso, parimenti, perché nulla cambia, non dovrebbe essere ucciso un istante prima, quando è ancora nell’utero della madre. Ma da istante prima a istante prima arriviamo al concepito, perché durante tutto lo sviluppo del nascituro, ci dice l’embriologia, nulla cambia, se non il numero di cellule e il loro perfezionamento. In breve: perché non usare questa sentenza a favore della vita e della comunità?

La Cassazione, con tale pronunciamento, ha stabilito che anche il bambino che sta transitando dalla vita uterina a quella extrauterina è da considerare un uomo a tutti gli effetti, e di ciò ce ne rallegriamo. Ma occorre prendere atto della totale mancanza di coerenza e logica di chi pretende di stabilire a colpi di sentenze chi debba essere considerato un essere umano e chi no, come se non fosse la natura delle cose a dettare la legge ma la legge stessa a determinare la natura delle cose. Che l’essere umano sia tale fin dal concepimento e dunque meritevole di tutela giuridica lo dimostra la scienza, il buon senso, la logica, l’evidenza dei fatti, il diritto stesso, nella sua tradizione e funzione naturale più pura di riconoscimento dei fatti e della giustizia e di tutela dei diritti e dei deboli; e vi è da aver paura di un sistema che pretende di modificare a piacimento le regole della natura per piegarle al diritto, quale che sia la forma di Stato e di Governo o l’ideologia che lo sorregge (e, sì, il liberalismo e il dirittumanismo/dirittocivilismo sono ideologie, né più né meno del nazionalsocialismo o del comunismo).

Per concludere questa breve trattazione: la strada per il (ri)riconoscimento dei pieni diritti del concepito, della sua dignità e vita, e del suo legame con la maternità e la famiglia (nel loro esito e ambito naturale, ovvero la nascita e la crescita e lo sviluppo della personalità, come da Costituzione) e con la comunità, è ancora lunga, e tuttavia, pur anche nell’ambito delle incoerenze del sistema e della stessa sentenza, comunque apprezzabile, che abbiamo evidenziato, tale pronuncia è importante e fondamentale.

                                                                                                                                                       Roberto De Albentiis                                                                                                                                                                      26-6-2019

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