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RICHARD WAGNER E IL "TRISTAN UND ISOLDE".

La fascinazione di un’opera che lascia sullo sfondo l’impressione di qualcosa di sfuggente si annuncia già con quel celebre accordo del Preludio in cui la tonalità è imprecisata. Tristano e Isolde sono personaggi dell’impossibilità, della fatalità, precipitati da un filtro magico nell’oblio d’amore a cui nulla si può opporre, nemmeno la vita. La morte sarà l’ineluttabile finale del loro destino, di cui il filtro magico è l’espediente narrativo e simbolico. Nietzsche, avendo ben in mente questi due personaggi, ebbe a dire che «l’arte di Wagner è malata, e sulla scena vi sono né più né meno che problemi isterici». L’opuscolo scritto da Nietzsche dopo la morte del compositore, come ultimo suggello delle divergenze che andarono esasperandosi rispetto all’iniziale grande stima e amicizia, ebbe notevole risonanza all’epoca, e pose le fondamenta su cui mossero le loro tesi tutti i detrattori. Probabilmente nessun artista è stato tanto amato quanto odiato come Wagner. Ma non va dimenticato che Nietzsche affermava “l’arte è, deve essere, soltanto ebbrezza”. Se questo è vero l’impalcatura della sua critica decade, perché nella musica colta non vi è forse altra opera che incarni l’ebbrezza quanto il Tristan und Isolde.

«Nell’ondeggiante oceano, nell’armonia sonora, del respiro del mondo nell’alitante Tutto… naufragare, affondare… inconsapevolmente… suprema letizia». Così si conclude il Tristan und Isolde. Poema dell’amore, dell’estenuante desiderio che non trova requie. E’ solo l’amore infelice, incompiuto, il vero amore romantico. All’estremo è voluttà di morte perché il desiderio è inestinguibile. Nel II Atto Isolde prorompe: «lascia che il giorno ceda alla morte». In quell’interminabile estatico duetto Tristano risponde «così siamo morti: eternamente congiunti, senza fine, senza risveglio, senza sospetto, ineffabilmente presi in amore». L’amore è la morte alla condizione precedente, conversione senza volontà d’uscita. Conforta Tristano «come potrebbe l’amore con me morire, l’eterno vivente con me finire?». Un’apertura metafisica.

La critica ha sempre mostrato la dicotomia esistente nell’opera, tra la notte, luogo del sogno d’amore, del desiderio che tanto più soffocato si fa irrefrenabile, e il giorno, luogo del potere, del senso del dovere, dell’amicizia, del rispetto del proprio ruolo. Nel caso di Tristano quello di fidato subalterno del Re cui Isolde è promessa sposa. La notte è il cedere all’amore, alla forza su cui nulla può né il pensiero né l’onore, dove il senso del mondo si dilegua. Il vertice è ancora il duetto dei due amanti nel quale l’identità è sospesa: Tristano canta «tu Tristano, io Isolde, non più Tristano», a cui risponde Isolde «Tu Isolde, io Tristano, non più Isolde». E’ la fusione d’amore, caratterizzata dall’impasto sonoro, quel vortice continuo dal pianissimo al fortissimo senza riguardo per la classica forma, vertigine che pare nascere dal nulla e finire nel nulla per poi nuovamente riprendere: affermazione, intreccio, e sviluppo dei leitmotiv, dei temi conduttori che caratterizzano un personaggio, un sentimento, un’idea, un oggetto, “melodia infinita”. Le critiche conservatrici al suo comporre si spiegano con l’avversione verso il nuovo, verso la rottura con un codice formale, significativo di un gusto.

Wagner ebbe a scrivere «la mia fantasia spesso accarezza l’idea che la vita degli uomini non sia altro che sogno di uno spirito eterno, brutti e bei sogni, e ogni morte un risveglio». Tutt’altro che manicheo a ben vedere. Non si può d’altronde non rinvenire in parte in questo pensiero, e nel tema del Tristan und Isolde, l’ascendente del Schopenhauer che prospettava nella negazione alla volontà di vivere la sola redenzione possibile. In una lettera pubblicata postuma, Wagner scrive di come «l’amore può condurre alla salvezza, alla coscienza di sé, alla negazione della volontà». Nondimeno nel III Atto Tristano si risveglia nell’incertezza, «quel mondo che per me Isolde solo contiene, come sarebbe Isolde fuori di quel mondo?». Non brama di vivere, ma morire bramando. E’ questo un delicato momento che apre al simbolo. La vera Isolde è l’anima immortale che la vita cela e con la quale Tristano anela il ricongiungimento nella morte?

L’idea di redenzione, del sacrificio eroico, nelle differenti opere wagneriane è sempre centrale ma non univoca, basti ricordare l’accusa di Nietzsche quando scrisse che Wagner nel comporre il Parsifal fu traditore perché «si era inginocchiato ai piedi della croce». Ma questo non pare l’intendimento di Wagner che vedeva nel Cristianesimo «un errore necessario». Non si può dimenticare che nel 1846 scriveva «qual è lo scopo finale, concreto, inteso a escogitare giustificazioni divine al possesso arbitrario della proprietà? La quale si fonda, nel suo nucleo sostanziale, su favole, su nozioni tramandate e su costruzioni accettate, di carattere mitico, fantastico, come per esempio la monarchia». Non è un mistero che flirtasse con istanze socialiste, non estraneo a spinte anarchiche. La convinzione nello spirito tedesco, nell’appartenenza a un popolo e del ruolo necessariamente comunitario dell’arte, è sempre stato un tema del suo pensiero. Ma nella sua tesi i grandi uomini non appartengono interamente al proprio tempo, vivono nel contrasto, fanno proprie le tensioni che ancora devono emergere chiaramente e dànno loro forma e vigore, «se vogliamo prendere l’esempio più eccelso possiamo ben rifarci a Gesù Cristo (…) o al destino di Giordano Bruno fatto morire sul rogo per opera di stupidi religiosi, un uomo che in quella stessa epoca sarebbe stato venerato, sulle rive del Gange, come un saggio e un santo». Si può riscontrare in questa convinzione il fondamento di una nobile presa di posizione, «il mio egoismo lo placo dandomi, immergendomi. L’egoismo moderno ha questo di osceno, di ributtante: tende a placare il bisogno solo divorando, prendendo». Moderno è qui aggettivo che va inteso a rinforzare la polemica. Wagner era un istrione, un eccentrico incapace di comporre se non indossando costose vestaglie di seta, alla strenua ricerca dell’effetto sonoro e sentimentale, “un commediante” come sosteneva Nietzsche? Non si faceva scrupolo di utilizzare gli altri per i propri scopi, avversando tutti coloro che facevano dell’arte una merce, mostrando una tempra fuori dal comune non arrendendosi né alle aspre critiche né ai primi insuccessi di pubblico. Wagner fu a lungo in fuga dai creditori, come dalla polizia dopo aver combattuto nella rivolta di Dresda. Come avrà in seguito a scrivere «credevo nella rivoluzione, come nella sua necessità e nella sua ineluttabilità (…) la mia tendenza si andò allontanando sempre più dal contatto con l’eccitazione politica del momento per trasformarsi presto in ideale artistico, mi entusiasmava delineare l’opera d’arte che doveva sorgere sulle macerie di un’arte menzognera». La menzogna era «che un mezzo espressivo, la musica, è stato trasformato in fine, mentre il fine dell’espressione, il dramma, è stato trasformato in mezzo e pretesto». Wagner annunciava la sua missione nel convincimento che «al dramma musicale fosse riservata una suprema perfezione». Quella perfezione a cui non si approssimò mai tanto quanto con il Tristan und Isolde, un dramma quasi senza azione, dramma dell’interiorità, che musicalmente attinge a un limite, il confronto con il quale sarà uno snodo di grande importanza per generazioni d’artisti. Un capolavoro.

P.A.

 

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