Nei giorni appena trascorsi c’è stato un gran vociare attorno alla manovra economico-finanziaria del governo italiano e al giudizio sulla stessa da parte della Commissione Ue, in ordine al relativo rispetto dei parametri finanziari europei.
A seguito della (prevista) bocciatura della manovra, si è diffusa con insistenza la legittima domanda sui motivi di un simile esito, nonostante il deficit previsto in manovra al 2,4% del PIL rientrasse appieno nel famoso parametro di Maastricht del 3%.
In primis, va considerato che il criterio finanziario del deficit-PIL rappresenta uno (non l’unico) degli indicatori su cui valutare la manovra. Difatti, il rispetto dei parametri europei non presuppone esclusivamente il singolo dato del rapporto deficit-PIL, poiché va valutato nel complesso, accompagnato, altresì, al rapporto fra debito pubblico e PIL, il quale non deve superare la soglia del 60%, mentre ad oggi l’Italia presenta un dato percentuale che è più del doppio del limite previsto.
Pertanto, è proprio in riferimento al debito pubblico, di cui Bruxelles chiede agli Stati membri un progressivo rientro, che va calcolata la spesa pubblica e, per relationem, che va calibrato il rapporto deficit/PIL.
Proprio in riferimento al secondo parametro debito pubblico-PIL, va tenuto conto che l’Italia, insieme alla maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea, ha assunto, in particolare dalla crisi del 2009 in poi, impegni internazionali di progressiva riduzione del debito e di graduale raggiungimento del pareggio di bilancio, per mezzo, prima dell’accordo sul Fiscal Compact, e, poco dopo, con l’introduzione in Costituzione (art. 81) dell’equilibrio tra spese ed entrate.
Pertanto, alla luce di una riduzione negli ultimi anni del Prodotto interno lordo italiano e a fronte degli impegni presi per ridurre il debito pubblico, si spiegano i motivi per cui Bruxelles abbia ritenuto eccessivo il rapporto deficit/PIL al 2,4%, sebbene inferiore rispetto alla soglia del 3%, limite massimo di deficit per i Paesi più “virtuosi”.
Non è questa l’occasione per commentare la bontà o l’adeguatezza scientifica di questi parametri finanziari, che in questa sede ci si limita a considerare quali meri dati di fatto.
Va, tuttavia, osservato che quanto sopra esposto risponde a uno specifico pensiero economico, quello neoliberista, secondo il quale una maggiore spesa pubblica aumenterebbe, sic et simpliciter, il debito pubblico di quel dato Paese. La teoria neoliberista, tuttavia, non considera affatto, per preconcetto ideologico, l’esistenza di cicli economici, per cui accade, per assurdo, che Paesi in recessione e, dunque, bisognosi di una maggiore spesa in deficit per far ripartire la crescita, attraverso investimenti pubblici in settori strategici, vengano costretti a misure di austerità economica.
A tal riguardo, tornando allo scontro tra Italia e Unione Europea in ordine ai conti pubblici, bisogna constatare che la manovra finanziaria poco o per nulla prevede l’impiego di denaro pubblico in investimenti mirati, limitandosi a presentare un mix di ricette liberali e assistenzialiste, di sicuro appeal elettorale, ma che scarsa incisione possono avere sulla crescita economica del Paese.
Probabilmente si doveva fare di più. Era l’occasione per osare e portare sul tavolo delle trattative una politica economica di rottura rispetto al passato, per mezzo della quale avere maggiore poter di negoziazione o per lo meno un buon motivo per iniziare un braccio di ferro con le istituzioni europee; mentre, invece, si è preferito giocare a mostrare i muscoli con il misero intento di elemosinare qualche decimale di punto percentuale dai burocrati di Bruxelles, con il rischio concreto e beffardo che, alla fine del tira e molla, del programma per cui si è preteso di sforare il deficit resti ben poco.
Claudio Giovannico