A circa un mese di distanza dal voto del 4 marzo, possiamo dire di essere oramai entrati nel pieno della campagna elettorale per le elezioni politiche italiane e come accade di consueto in queste occasioni si riaccende puntuale il dibattito sull’euro e su un suo possibile abbandono per volontà unilaterale del Paese di turno. Sfortunatamente, come da prassi, l’agone politico viene occupato esclusivamente da opposte fazioni, ideologicamente posizionate, che tendono a limitare la discussione ai soliti cliché, parole d’ordine e facili ricette da dare in pasto agli elettori.
Eppure, la questione relativa la moneta unica europea rappresenta argomento troppo complesso e importante per permettere che venga lasciato al riduttivo scontro ideologico fra le opposte tifoserie degli “euristi” e dei “no-euro”.
Prescindendo dal dogmatismo aprioristico dei sostenitori tout court dell’euro, da una parte, e dall’approssimazione di chi invece crede che l’uscita dalla moneta unica rappresenti l’unica soluzione possibile e soprattutto indolore, nell’approcciarsi alla questione in oggetto è bene muovere dalla considerazione di base che nella storia dell’economia non si è mai verificata un’esperienza equiparabile alla crisi della zona euro.
Sebbene sia vero che in passato si siano già verificati casi di crisi valutarie dovute alla rottura di accordi di cambio seguite da ampie svalutazioni, non è semplice prevedere, sulla base di precedenti non paragonabili al caso in esame per dimensioni e circostanze differenti, quali scenari potrebbero profilarsi in seguito a una crisi dell’euro per fuoriuscita unilaterale di uno Stato membro. D’altronde, basterebbe considerare le eventualità che la crisi dell’eurozona potrebbe comportare fuoriuscite singole o multiple, autonome o concertate, di Paesi piccoli o più grandi, e portare o meno a nuovi accordi di cambio, per comprendere quanto difficile sia produrre previsioni più o meno certe in tal senso. Sarebbe bene dunque diffidare da chi afferma il contrario, sia esso favorevole oppure ostile alla moneta unica.
Le poche certezze che si possono avere a riguardo è che un eventuale collasso dell’eurozona sarebbe molto differente da tutti i casi precedentemente verificatisi di crollo di aree con cambi fissi, in primis per la dimensione economica dell’area euro (quasi il 20% del Pil mondiale) e in seconda istanza per l’interconnessione finanziaria interna all’area stessa e per quella con l’esterno, considerato il ruolo che l’euro svolge quale moneta valutaria di riserva internazionale; aspetto che tecnicamente connoterebbe un ritorno alle monete nazionali non quale mera svalutazione, ma come vera e propria “ridenominazione”, con tutte le problematiche annesse in ambito finanziario internazionale.
In relazione a quest’ultima situazione, una rottura del sistema economico e monetario europeo avrebbe come probabile immediato effetto il congelamento del sistema finanziario internazionale, che tradotto in termini di economia reale significherebbe assistere al blocco del sistema bancario e creditizio, con conseguente fallimento a catena del tessuto produttivo.
La variabile dei mercati finanziari, piaccia o meno, va giocoforza considerata, con buona pace di tutti coloro i quali credono ed affermano che tutto possa risolversi col mero recupero della sovranità monetaria e mettendo in atto la tanto osannata svalutazione competitiva della recuperata valuta nazionale.
In un precedente articolo, pubblicato sempre su questa rivista (La strategia perdente dell’eurexit. https://domus-europa.eu/?p=6874), ho già trattato il tema dei possibili effetti della crisi del cambio sull’inflazione, illustrando quanto le previsioni dei fautori delle svalutazioni competitive siano fin troppo ottimiste e non considerino minimamente i successivi effetti inflazionistici del deprezzamento valutario, che anche in passato hanno finito per eroderne i relativi iniziali vantaggi competitivi. Senza considerare che simili teorie sottovalutano, quando addirittura non contemplino affatto, le possibili ripercussioni sui mercati finanziari che comporterebbe la sparizione della moneta unica.
Pertanto, al fine di rendere meno pesante la lettura, in quest’articolo mi limiterò a fare solo qualche cenno in ordine agli effetti svalutativi sui redditi e sui salari reali derivanti dall’eventuale deprezzamento della ritrovata moneta nazionale, dal momento che l’aumento del livello generale dei prezzi interni che segue la svalutazione tenderebbe a ridurre il potere di acquisto dei salari monetari, che a sua volta accentuerebbe l’inflazione, erodendo ulteriormente il vantaggio competitivo della svalutazione, alla luce altresì di una riduzione della domanda interna, che finirebbe per ridurre la crescita, con prevedibili riflessi negativi nel settore occupazionale.
Lo scrivente tiene a precisare di non fare affatto parte della schiera di chi difende l’euro senza sé e senza ma, avendo già provveduto in altre sedi a criticare abbondantemente e aspramente l’ordinamento economico e monetario europeo. Tuttavia, l’essere critico nei confronti del meccanismo eurista non può tradursi nell’automatica e pregiudizievole condivisione delle ragioni di chi vorrebbe un’uscita immediata e unilaterale dall’area euro, senza considerare cosa potrebbe comportare il crollo dell’eurozona.
Affermare e riconoscere le aporie e le criticità del meccanismo sotteso all’attuale struttura economica e monetaria europea, impone la ricerca di soluzioni valide e praticabili, non viziate dal preconcetto.
È evidente che l’euro anziché rafforzare l’Europa, produca al contrario divisioni e tensioni che minano le fondamenta stesse dell’Unione Europea e del Mercato Comune Europeo, ma uscirne unilateralmente non pare essere una soluzione priva di conseguenze. Un abbandono del sistema euro sarebbe forse praticabile solo nel caso in cui venisse prevista una fuoriuscita “concordata, controllata e coordinata” con gli altri Stati membri, a partire da quelli economicamente più solidi e centrali, per poi passare gradualmente alla fuoriuscita degli altri Paesi periferici. Tuttavia, si deve essere consapevoli dell’estrema improbabilità politica di un simile scenario ipotetico dal momento in cui richiederebbe una cooperazione fra Stati che va ben oltre quella che sarebbe necessaria ad un “aggiustamento in corsa” dell’euro.
Inoltre, non è detto che un’uscita necessariamente si accompagni ad un immediato ed automatico abbandono del regime di austerità e dei principi del liberismo, di cui la moneta unica per come è stata pensata e attuata non è altro che una delle sue numerose manifestazioni.
Pertanto, si potrebbe affermare che il succo del problema stia tutto nell’ideologia ordoliberale che sta alla base dell’attuale costruzione giuridico-politica dell’Unione Europea e della sua moneta, per cui sarebbe logico auspicarne una riforma e una revisione in ottica opposta a quella attuale.
La dimostrazione che i problemi dell’euro siano risolvibili con un cambio di segno delle politiche economiche europee in senso espansivo e redistributivo ci è data da ultimo dai recenti risultati positivi conseguiti dal Portogallo. Si tratta di un Paese dell’eurozona con un’economia interna in recessione che nell’ultimo anno è riuscito tuttavia ad uscire dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo attraverso l’adozione di poche e semplici politiche economiche espansive di aumento della spesa corrente e riduzione delle imposte, per mezzo delle quali ha potuto ridurre parte della tassazione che penalizzava il settore produttivo e spingere i redditi delle fasce deboli della popolazione, provocando un aumento della domanda interna nonché degli investimenti privati.
Se ad un Paese in recessione è bastato cambiare parzialmente strategia nelle scelte di politica economica per tornare a crescere, chissà quali benefici trarrebbe l’eurozona da un profondo mutamento di segno del proprio indirizzo economico e politico.
Perché ciò avvenga è tuttavia necessario che si creino le relative condizioni politiche. A fronte degli atteggiamenti ostruzionistici della Germania e dei Paesi del Nord Europa a una revisione della governance economica e monetaria europea, l’unica carta da giocare sembra dunque essere quella di una disobbedienza costruttiva da parte dei Paesi europei del Sud Europa, che sulla scorta del modello del Gruppo di Visegrad, farebbero bene a costituire una forma di cooperazione internazionale fra Stati (che potremmo “con poca fantasia” chiamare Mediterranean Group) col medesimo e condiviso obiettivo di condurre sul piano sovranazionale europeo un’azione di contrasto rispetto alle politiche economiche di austerità e ai relativi effetti recessivi e deflazionistici, per puntare a una profonda riforma strutturale della macchina europea orientata verso un modello di sviluppo trainato da salari, domanda interna e nuovi investimenti non solo privati, ma anche e soprattutto pubblici.
Claudio Giovannico