Ci risiamo. Nell’edizione serale del telegiornale del principale canale statale del 13 febbraio le notizie sono state date con un ciclo ricorrente: servizio sull’Ucraina, servizio sul covid, servizio sull’Afghanistan e poi di nuovo con un’altra serie nello stesso ordine. Come avvoltoi nella savana, i direttori dei telegiornali, che ormai sono più aziende che vettori di informazione, hanno fiutato la possibilità di indurre uno stato di attenzione isterica nell’audience per tenere gli spettatori incollati allo schermo, aumentando lo share. E se aumenta lo share, aumenta il valore degli spazi pubblicitari.
Ma basta grattare sotto la patina di sporco e spegnere i megafoni delle agenzie, per vedere una realtà molto diversa: in Ucraina sono dieci anni che si combatte un conflitto fratricida a medio-bassa intensità, che è partito dalla lotta politica tra oligarchi, ma si è rapidamente espanso fino ad assumere una matrice ideologica e etnica. La rottura delle tre repubbliche separatiste della Novij Rossija (la Crimea è un caso a parte, sia perché storicamente non c’entra con l’Ucraina, sia perché il parlamento locale, che già godeva di una qualche autonomia, ha deliberato la secessione dopo una votazione referendaria) è infatti stata occasione per la formazione neo-nazista e suprematista del Pravij Sektor (la cui bandiera nera e rossa incarna lo slogan “sangue e terra”, e rappresenta un richiamo diretto agli ucraini “patriottici” che collaborarono con i nazisti durante la Seconda guerra mondiale), di alzare la testa ed entrare a pieno titolo all’interno del parlamento di Kiev. La guerra è allora degenerata da un conflitto “feudale” tra due gruppi di oligarchi in una sanguinosa operazione tra il diritto all’autodeterminazione degli ucraini di lingua e identità russa, e i suprematisti che spingevano per l’epurazione e l’omologazione culturale secondo i dettami della vera “cultura ucraina”, che ricordiamolo ancora una volta, avrebbe avuto il suo climax nel 1940 e nel collaborazionismo. Per noi occidentali, che viviamo con una percezione del tempo piuttosto dilatata, fa specie rendersi conto che nelle repubbliche separatiste, che sono quelle sotto attacco, ci sono bambini e bambine, che sono nati e vissuti con la presenza costante dei bombardamenti di artiglieria di Kiev sulla loro testa, che non sono potuti andare a scuola perché queste sono state colpite in maniera prioritaria, e, come nel caso della giovanissima autrice Faina Savenkova, che hanno una taglia governativa sulla loro testa.
Non si tratta quindi di un conflitto che rischia di scoppiare, ma che è già in corso, ma che è stato combattuto prevalentemente dagli autoctoni. Le repubbliche separatiste, infatti, sebbene riconosciute da Mosca, non sono state integrate nella Federazione russa, esattamente come l’Ucraina, che in questi anni si è avvicinata al blocco europeo e alla Alleanza atlantica, non è ancora stata fatta entrare nella NATO. In parole povere, le parti fanno il tifo, magari mandano aiuti, ma evitano accuratamente di essere vincolate da un trattato che le obbligherebbe ad intervenire in caso di escalation improvvisa. Inoltre, diciamolo pure, nessuno vuole davvero rischiare per Kiev: Mosca annetterebbe una provincia che è si considerata la vicina prossimità e nella sua sfera di influenza, ma che presenterebbe enormi problemi dal punto di vista del governo, e in cui non ha un carismatico alleato da porre alla guida del paese, come invece è avvenuto per la Cecenia. Allo stesso modo gli stati europei, che sostanzialmente hanno una forte integrazione con l’economia russa (specialmente la Germania), non metterebbero mai davvero in pericolo la fornitura energetica che alimenta le loro economie. Certo, la russofobia fa molto comodo alle istituzioni
europee, che usano il Babau di Mosca (arrivando ad evocare la vecchia parola magica “comunismo”) per aumentare la coesione dell’ente sovrannazionale, ma tra condannare a parole e imbracciare un fucile per morire per le proprie credenze (giuste o sbagliate che siano), sta la differenza tra un impero e un simposio di intellettuali. Restano quindi da considerare i nostri parenti anglosassoni: se per la Gran Bretagna si può fare un discorso non troppo dissimile da quello delle istituzioni europee, ovvero il fatto che il governo Jonson, tra scandali e carenze strutturali dell’economia, ha colto l’occasione al balzo per rievocare lo spettro dei terribili russi, i nemici storici dell’impero britannico, per distrarre l’opinione pubblica da quello che accade in patria, per gli USA la faccenda è più complessa. Lo scacchiere ucraino, infatti, non rappresenta solo un’occasione di riaffermare il prestigio dell’impero americano (nominalmente la NATO) dopo quattro anni in cui Trump lo aveva di fatto indebolito, ma è allo stesso tempo una prova di forza finalizzata sia ad allontanare la Federazione russa dall’Ue, e dimostrare alla aggressiva economia tedesca/europea che la prosperità di cui godono serve a poco contro le clave. Insomma, è tutto un enorme circo in cui Vladimir Putin e Joe Biden si studiano cercando di disinnescare un incendio fatto alimentare per più di dieci anni, ma che è imperativo spegnere senza perdere la faccia né esporre il fianco al nemico: dopotutto i russi, che hanno uno staff per gli esteri preparatissimo e di grande cultura, ricordano benissimo come la crisi dei missili di Cuba, una vittoria diplomatica dell’URSS a seguito dello schieramento avanzato di missili nucleari americani in Turchia e Italia, sia stata distorta e tramandata come una vittoria americana dalla più abile macchina propagandistica yankee. In mezzo al marasma, le vittime primarie di questa danza macabra sono proprio le forze democratiche del governo di Kiev, che in questi giorni stanno disperatamente cercando di porre un freno alle crescenti voci di una possibile invasione russa dell’ucraina, che non risulta credibile per i numeri e che rischia di spingere lo stato verso il collasso economico e la devastazione più totale, in una partita a risiko giocata sulla pelle di una vittima completamente incapace di reagire.
Andrea Giumetti
LA SIRIA IN MANO AI TERRORISTI. Di Gianni Alemanno
Il 7 dicembre il regime siriano è collassato: Damasco è caduta in mano di gruppi ribelli che provenivano da sud, dal governatorato di Daraa e