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ARGENTINA: UNA SPERANZA SOFFOCATA DI LIBERTA' – PARTE SECONDA – di Luigi Copertino.

Segue dalla prima parte: https://domus-europa.eu/?p=55

Cristina Fernández de Kirchner, 56° presidente della Repubblica argentina dal 2007 al 2015

Ma come è avvenuto tecnicamente l’aggiramento del controllo sui movimenti di capitali imposto dal governo argentino? Per aggirare i controlli governativi le banche estere con filiali negli Stati Uniti e sedi in Argentina garantivano l’afflusso di dollari al mercato nero attraverso un meccanismo simile al pronti contro termine: il cliente comprava in pesos un titolo della Borsa di Buenos Aires contemporaneamente quotato anche a Wall Street, poi apriva un conto corrente all’estero e lo rivendeva a New York ricavando dollari da rivendere in Argentina al mercato nero, a quotazione superiore a quella ufficiale, o da depositare all’estero.
La ricostruzione dei metodi criminali usati dalla speculazione transnazionale ai danni del popolo argentino deve farci trarre una lezione ossia quella per la quale il controllo sui movimenti di capitale come, in altro ambito, il controllo sulle importazioni ed esportazioni sono e devono rimanere uno strumento di sovranità fondamentale per qualunque governo nazionale ma al tempo stesso devono sempre essere usati senza integralismi, quindi con margini di flessibilità a seconda delle circostanze. Oggi poi, nell’età globale, gli Stati, per usare efficacemente detti strumenti, hanno assoluta necessità di coordinarsi tra loro all’interno di una “rete confederale”. Solo in tal modo, ossia unendo le forze in modo coordinato, gli Stati potranno governare l’economia senza abbandonarsi all’illusione convinzione dell’armonica spontaneità del libero mercato, un mito più volte sfatato dai fatti e che troppo continua a incantare i gonzi.
Se per alcuni economisti, come si è detto, la parificazione del tasso di cambio pesos/dollaro effettuata dal secondo governo Kirchner ha seguito logiche assolutamente diverse da quelle di Menem, tuttavia secondo altri economisti, al contrario, la nuova parificazione è stata un fatale errore per Cristina Kirchner. Un errore che mal si conciliava con la politica “keynesiana” del suo governo, perché l’imposizione del cambio fisso comporta di conseguenza l’austerità di bilancio, che invece la Kirchner non ha introdotto. Questa seconda schiera di economisti muove la sua critica alla parificazione valutaria effettuata dal governo di Cristina Kirchner perché la considera non motivata dal tentativo di controllare la fuga dei capitali ma dal principale intento di combattere l’inflazione, mediante appunto l’apposizione di un vincolo esterno, esattamente come fece a suo tempo Menem disastrando l’Argentina. Da qui l’accusa di contraddittorietà nella politica economica del secondo governo neo-peronista.
Abbiamo però anche visto che, forse, le intenzione della Kirchner erano ben altre che quelle di contenere l’inflazione con il vincolo esterno della rinuncia alla sovranità monetaria. Non entriamo, qui, nel merito tecnico per definire se errore è stato o meno, anche perché in un campo mondanamente relativo come quello dell’economia ciò che in certe circostanze è errore in altre può non esserlo. Se, tuttavia, un errore vi è stato, esso è consistito nel credere che la causa, o la causa principale, dell’inflazione sia di natura monetaria, derivi cioè dall’eccesso di moneta in circolazione. Il cambio fisso, con il suo vincolo esterno, secondo tale prospettiva, impone disciplina di bilancio e quindi contrazione della circolazione monetaria con conseguente abbassamento dei prezzi. Non è questa la sede per affrontare il dibattito scientifico che ha screditato la cosiddetta “teoria quantitativa della moneta”, sulla quale si basa il monetarismo, ed ha dimostrato il carattere endogeno e non esogeno dei mezzi di pagamento monetari e non monetari, i quali non essendo affatto una merce non possono essere considerati sic et simpliciter soggetti alle leggi del mercato come fossero banane. Qui basta solo dire che la fiammata inflazionistica argentina degli ultimi cinque anni è stata la semplice conseguenza della tumultuosa crescita dell’economia del Paese negli anni 2003-2010, quelli del primo governo di Nestor Kirchner.
Infatti, non è la quantità di moneta in circolazione a causare inflazione ossia aumento dei prezzi. Oggi meno che mai, dato che la moneta attuale è per lo più immateriale, dunque invisibile, trattandosi ormai di meri trasferimenti di cifre in forma di input informatici tra un conto corrente e l’altro, senza cioè effettivo passaggio di moneta legale con la sua, già residuale rispetto all’oro, materialità cartacea. Sicché, in assenza di percezione da parte del pubblico della quantità della moneta in circolazione, data la sua invisibilità, ne restano del tutto inibite le “aspettative inflazionistiche” che secondo i monetaristi agiscono nel meccanismo psicologico ed economico di formazione dell’inflazione.
Quest’ultima, l’inflazione, ha la sua origine nello squilibrio tra domanda ed offerta dei beni sul mercato. In tal senso – benché un Paese deve essere sempre libero di favorire o sfavorire le importazioni, sia come misura di difesa della propria industria a fronte di sleali dumping commerciali esteri sia, oggi più che mai, come misura di scoraggiamento delle delocalizzazioni industriali se comportanti, senza contropartita, l’impoverimento occupazionale interno – un eccesso di autarchia, ossia una eccessiva contrazione delle importazioni, può certamente avere un effetto inflattivo sul prezzo di quei beni la cui disponibilità fosse ridotta in misura drastica sul mercato interno.
L’evidente causa non monetaria dell’aumento dei prezzi, ossia dell’inflazione, non è difficile da comprendere. Per la legge della domanda e dell’offerta i prezzi aumentano se c’è più richiesta di beni (e viceversa). Ora la domanda cresce quando c’è molto più reddito, ossia potere d’acquisto a disposizione, ovvero quando ci sono molte più persone che possono spendere. Questa situazione si verifica soltanto nelle situazioni in cui c’è un basso tasso di disoccupazione e quando gli stipendi sono adeguati alla produttività. In un tale contesto, se a fronte dell’aumento della domanda si verifica una contrazione dell’offerta o una insufficiente produttività dal lato dell’offerta tale da lasciare insoddisfatta gran parte della domanda, ne consegue inevitabilmente l’aumento del prezzo dei beni disponibili sul mercato in quantità ridotte. Questo appunto genera inflazione. Mentre, al contrario, la contrazione della domanda, conseguente alla mancanza di potere di acquisto ossia di reddito a causa dell’alta disoccupazione e delle politiche di austerità, genera deflazione, che è l’abbassamento dei prezzi, nel tentativo per le imprese di trovare acquirenti, dei beni disponibili in misura eccessiva rispetto alle capacità di assorbimento dal lato della domanda.
Quindi una crescita tumultuosa e rapida, come quella conosciuta nella prima fase dell’Argentina kirchneriana, ha sovente quale conseguenza il sopraggiungere, in una seconda fase, delle spinte inflattive che un governo deve essere in grado di prevedere a controllare. Il tasso di disoccupazione in Argentina, nel periodo di Nestor Kirchner, coincidente con la fase espansiva, è passato dal disastroso 25%, effetto del liberismo di Menem, al 7,2% nel 2011, per giungere fino al 6,8% nel 2013. Questo ha prodotto evidenti spinte inflattive che si sarebbero dovute controllare adeguando l’offerta alla accresciuta domanda interna.
Tuttavia, il governo di Cristina Kirchner, pressato da un eccesso di radicalismo proveniente dalla sua base elettorale più popolare, non è stato in grado di prevenire e dare risposta alla crescente inflazione da domanda, della quale la deflazione estera sui beni di esportazione argentini ha contribuito ad aumentare l’impatto sociale.
Un altro errore, non di politica economica, ha poi commesso il governo Kirchner. Un errore al quale, qui, accenniamo perché rappresenta il lato meno credibile del kirchnerismo che ha finito per favorire lo strumentale appello conservatore in difesa dei “valori naturali”. Uno specchio elettorale per le allodole con il quale Mauricio Macri ha fatto leva sulle convinzioni religiose della maggioranza degli argentini nel tentativo, a quanto pare riuscito, di porre una irriducibile, quanto falsissima, alternativa tra politiche di difesa della famiglia tradizionale e politiche sociali avanzate. Infatti, nella recente campagna elettorale, Macri, con l’appoggio di esponenti finanziari dell’Opus Dei, si è fatto paladino, in perfetto stile “teocons”, della famiglia tradizionale facendo leva sulla convinzione, troppo diffusa tra i cattolici, purtroppo anche da noi, che detta difesa della famiglia non sia separabile dal liberismo economico.
Nell’ambito dei rapporti con la Chiesa cattolica il governo dei Kirchner ha fatto, stupidamente, lo stesso errore che fu già di Juan Domingo Peron. Il quale – probabilmente in questo spinto più dalla moglie Evita, grande peccatrice ma anche a modo suo sincera cristiana, piuttosto che dalle proprie tiepide convinzioni religiose – inizialmente seguì una politica di favore per la Chiesa cattolica, abrogando il divorzio e l’aborto fino a giungere a costituzionalizzare la dichiarazione di cattolicità quale requisito per assumere l’incarico di Presidente della Repubblica Argentina. L’iniziale ottimo rapporto tra peronismo e Chiesa cattolica fu sigillato anche dalle evidenti somiglianze tra la politica economica interclassista socialmente avanzata che il movimento justicialista propugnava ed i principi della Dottrina Sociale Cattolica (benché non mancasse qualcuno, in campo cattolico, che lamentava nel peronismo un eccesso di “statalismo”). Tuttavia, in coincidenza con le prime avvisaglie di crisi politica del suo governo, ossia dopo la morte di Evita, avvenuta nel 1952, Peron cambiò improvvisamente politica ecclesiastica adottando, forse anche per reazione alle critiche di una certa parte, quella più socialmente conservatrice e vicina all’“oligarchia”, dell’episcopato, una politica laicista in tema di matrimonio, aborto e di insegnamento scolastico. Un assurdo errore (ci furono persino alcuni episodi di assalto di chiese da parte di militanti peronisti) commesso oltretutto nel momento nel quale il governo “tercerista” di Juan Domingo Peron annaspava nella crisi che avrebbe portato al golpe militare ed all’esilio dello stesso Peron.
Ripetendo, in qualche modo, lo stesso tragico errore, anche il governo dei Kirchener ha, a suo tempo, aperto un evitabilissimo conflitto con la Chiesa cattolica sul tema dei presunti diritti civili e delle unioni omosessuali, dimostrandosi in questo succube dell’ideologia transgender per un malinteso senso di errata “laicità” che con l’autentica autonomia laicale non ha nulla a che fare. Memorabili, nel periodo kircheriano, furono le reprimende che l’allora cardinale di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio rivolse pubblicamente, in loro presenza, nella cattedrale della capitale argentina, ai coniugi Kirchner per le politiche contro la famiglia naturale del governo neo-peronista. Lo stesso Bergoglio che, però, da Papa ha poi anche lui “svoltato” aprendo eccessivi spiragli sinodali alla comunione dei divorziati ed alleggerendo la pressione ecclesiale sui governi in merito alle unioni civili tra omosessuali, concedendo così eccessivo credito intra-ecclesiale alla neo-teologia hegeliana di cardinali come Walter Kasper.
La storia dell’Argentina ci riguarda, come italiani, da vicino e non solo per i forti nessi culturali dettati dall’immigrazione italiana nel Paese dei gauchos, che rischiò persino di soppiantare nella lingua nazionale lo spagnolo (nomi come Peron, Scioli, Macri, Bergoglio, tradiscono una chiara origine italiana), ma per le evidenti analogie tra l’Italia ed il Paese sudamericano non tanto per i fondamentali e le strutture economiche, assolutamente diverse, quanto per la questione della sovranità monetaria, perduta o riconquistata.
Infatti l’analogia tra l’aggancio del peso al dollaro, sperimentato dall’Argentina negli anni ‘90, e quella della lira al marco, realizzato entrando nell’eurozona, è molto forte. La rinuncia alla sovranità monetaria attraverso l’euro, nel nostro caso, fu presentata, ed ancora è presentata, come l’evento che ci avrebbe difeso da una crisi “di tipo argentino”. Tuttavia, fin dal 2006 un economista di fama come Nouriel Roubini aveva rovesciato la prospettiva e messo in evidenza che l’entrata nell’euro aveva esposto l’Italia agli stessi rischi corsi dall’Argentina agganciandosi al dollaro ossia alla perdita di competitività ed all’accumulo di debito estero, con forte rischio di default.
I dati e la storia hanno dato ragione all’economista francese.
Luigi Copertino

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