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SULLA GUERRA CIVILE AMERICANA. INTERVISTA A GILBERTO ONETO. a cura di Nicolò Dal Grande

Il 2015 si presenta come un anno di ricorrenze, dal centenario dell’entrata italiana nella Grande Guerra alla conclusione del secondo conflitto mondiale; tra questi spiccano i centocinquant’anni dalla fine della Guerra Civile Americana. Ne parliamo con Gilberto Oneto, autore del libro Unità o libertà. Italiani e padani nella guerra di secessione americana (Edizioni Il Cerchio, 2012).

A cura di Nicolò Dal Grande

La battaglia di Gettysburg (1-3 luglio 1863)

La versione storiografica “classica” vede fra le cause principali del conflitto civile americano la lotta per l’abolizione dello schiavismo, al giorno d’oggi soggetta a una revisione critica. In base agli studi contemporanei, in che termini la lotta contro la “schiavitù” incise sullo scoppio della guerra di secessione?
“Quella di secessione è stata la prima guerra “moderna” in senso deteriore: si è preteso allora (e dopo) che fosse uno scontro fra il bene e il male, che tutti i “buoni” stessero da una parte e i “cattivi” dall’altra. Alla guerra è stata attribuita una connotazione “morale”, di liberazione degli oppressi, esattamente come per tutto il Novecento si sono giustificate guerre con la scusa dell’imposizione di libertà, democrazia, e diritti civili, collocando tutti i “cattivi” – da Guglielmo I fino a Saddam Hussein – dalla parte da sbaragliare.
In realtà le motivazioni della guerra americana sono ben altre: 1) c’era uno scontro fra due concezioni economiche, quella industrialista e protezionista del Nord e quella agraria e liberoscambista del Sud; 2) c’era lo scontro fra due concezioni politiche, quella accentratrice del Nord e quella conferderalista del Sud che attribuiva agli individui e agli Stati in cui si erano liberamente associati ogni capacità di scelta politica (compresa quella sullo schiavismo); 3) c’era infine uno scontro – non meno importante – fra due mentalità, quella puritana, integralista e cupa del Nord e quella più aperta, liberale e rilassata del Sud. Non a caso Raimondo Luraghi ha parlato di uno scontro fra illuminismo e Rinascimento.
L’inserimento della questione abolizionista è stata una cinica trovata di Lincoln per risolvere una situazione politica e militare piuttosto critica. Prima della guerra Lincoln non era mai stato un convinto abolizionista, era anzi piuttosto indifferente alla vicenda. Il suo scopo era la difesa a oltranza dell’unità e il rafforzamento del potere federale a danno di quello degli Stati. L’atto di emancipazione degli schiavi è del 1 gennaio 1863 e riguarda solo i negri degli Stati sudisti. Ancora nell’agosto del 1862 Lincoln aveva dichiarato: «Il mio obiettivo primario in questa lotta è quello di salvare l’Unione e non quello di conservare o eliminare la schiavitù. Se potessi salvare l’Unione senza dover liberare un solo schiavo, lo farei. (..) Ciò che faccio riguardo alla schiavitù e per la razza di colore, lo faccio perché penso che aiuti a salvare l’Unione».
La trasformazione di una brutale guerra di difesa di interessi specifici e concreti in una crociata per la liberazione dei negri è il vero capolavoro del signor Lincoln e del potente macchinario mediatico che da allora ha sostenuto – e fatto passare – questa panzana “politicamente corretta”.”

La vittoria nordista  ha comportato il trionfo dell’ideologia “abolizionista”; ciò ha condotto a una reale valorizzazione dell’elemento “afro-americano” della società americana, oppure si è trattato di uno opportunistico strumento ideologico per interessi secondari?
“La vicenda degli afro-americani durante e dopo la guerra si è sviluppata in sintonia con l’ipocrisia dei vincitori. A Nord i progrom razzisti sono stati parecchio numerosi; nel Sud non c’è stata durante la guerra una sola rivolta di schiavi. A Nord i negri erano inquadrati in reparti a sé comandati da ufficiali bianchi; a Sud i numerosissimi soldati di colore combattevano a fianco dei bianchi. Il razzismo “ufficiale” sudista non trovava conferma nel comportamento della gente: è interessante ricordare che l’ultimo reparto sudista ad arrendersi – due mesi dopo Lee – era stata la brigata di cavalleria Cherockee di Stand Watie. Serve anche ricordare che tutte le sanguinose repressioni contro i pellerossa dei decenni successivi sono state opera di nordisti, quasi sempre reduci dalla guerra di secessione. Dopo la guerra i negri hanno ottenuto la formale liberazione (che avrebbero comunque ottenuto anche dai confederati) ma non hanno acquisito reale uguaglianza di diritti civili per un altro secolo.
Strano dettaglio per un paese che aveva combattuto una guerra sanguinaria proprio per la loro emancipazione!”

Con la vittoria unionista, com’è cambiata la mentalità nella società americana e in che modo ha inciso nelle scelte seguenti della politica statunitense?
“Ha prevalso la parte più “attiva” dell’industrialismo e del capitalismo americano, quella a forte vocazione imperialista. Si è avuto un deciso cambiamento di interpretazione della “dottrina Monroe”. È stata decisamente applicata la parte che prevedeva la non interferenza europea nel continente americano: gli europei sono stati brutalmente estromessi con una serie di interventi militari. È stata invece “dimenticata” la parte che prevedeva il non interesse americano nelle vicende europee. Nell’ultimo secolo gli Stati Uniti si sono pesantemente “interessati” dei casi (e dei mercati) europei e non solo quelli. Avessero vinto i sudisti, probabilmente i rapporti sarebbero stati meno conflittuali e più paritari. Non ci sarebbe stata una superpotenza americana o avrebbe avuto un ruolo meno “nevrile”.”

La guerra di secessione è nota per l’utilizzo di armi “moderne”, dalle mitragliatrici alle prime corazzate. Si può parlare di un monito non ascoltato in luce del successivo conflitto mondiale?

Caduti nordisti a Gettysburg. Foto di Timothy O’Sullivan, 1863

“È stata la prima guerra moderna per concezione, ma anche per svolgimento. La tecnologia militare e anche il suo cinico impiego ne hanno fatto una guerra sanguinosissima e devastante: fra 600 e 800 mila morti (fra il 3% e il 5% della popolazione) con intere regioni meridionali completamente distrutte .
L’Europa però non ha preso atto di quanto accaduto, non ha avuto sufficienti informazioni o non ha voluto leggerle. Così nel 1914 si è lanciata in uno scontro ugualmente drammatico con lo spirito romantico di una gioiosa “guerra di primavera” con suoni di fanfare, uniformi sgargianti e bandiere al vento, bruciando decine di milioni di vite e iniziando il suicidio complessivo del continente.”

Nel suo libro Unità o Libertà descrive un curioso parallellismo  della guerra con il Risorgimento italiano, citando inoltre la presenza di numerosi italiani nel conflitto
“La guerra americana somiglia molto al processo risorgimentale che si stava concludendo quando in America si sparavano le

Unità o libertà. Italiani e padani nella guerra di secessione americana. Autore Gilberto Oneto, edizioni Il Cerchio (2012)

prime cannonate. In entrambi i casi si tratta di uno scontro impari fra la peggiore modernità e la Tradizione, fra le idee di unità e di libertà, fra il centralismo e le autonomie (in Italia rappresentate da indipendenze vecchie di secoli).
È perciò piuttosto coerente che il neonato Regno d’Italia sia stato dalla parte dell’Unione e che lo Stato della Chiesa (solo Stato preunitario sopravissuto) sia invece stato uno dei pochi amici internazionali della Confederazione. A ulteriore suggello simbolico c’è la strampalata vicenda dell’offerta a Garibaldi di un comando unionista, che si è trasformata in una ridicola commedia di equivoci e ipocrisie: Garibaldi (che pretendeva addirittura – figuriamoci! – il comando supremo) ha preferito restarsene prudentemente a casa (sapeva bene che i generali sudisti non erano i cialtroni borbonici comperati dai Savoia) e Lincoln ha evitato la pericolosa scocciatura di un vanaglorioso pasticcione. È, in proposito, bastata la terribile figura della Garibaldi Guard (un reparto di volontari stranieri organizzato a New York nel nome dell’Eroe dei due mondi) fatta di corruzione, diserzioni e fughe vergognose. Per contro – a sottolineare il parallelismo fra le due vicende storiche – un consistente numero di soldati napoletani, finiti prigionieri dei garibaldini, era stato mandato da Garibaldi a combattere a fianco dei sudisti con un altro dei suoi straordinari gesti di coerenza.
Qualche italiano era partito per arruolarsi con i nordisti e pochissimi anche con i sudisti, nonostante il rigido blocco navale.
Diversa è la situazione degli italiani e degli italo-americani residenti oltre oceano allo scoppio della guerra: 2.544 negli Stati secessionisti e 9.133 nell’Unione. Non si hanno dati precisi sulla loro partecipazione ma dalle informazioni raccolte sono stati di più (sia in numeri assoluti che – soprattutto in percentuale) quelli che hanno combattuto in uniforme grigia, con percentuali superiori a quelle de molti altri gruppi etnici. Si trattava in maggioranza di piemontesi, lombardi e – principalmente – liguri residenti per la più parte in Louisiana.
In molti si sono comportati piuttosto bene. Basterà citarne un paio che hanno notevole rilevanza simbolica: Giovanni Battista Garibaldi ha combattuto con il leggendario generale “Stonewall” Jackson nel 27° Virginia e ha avuto l’onore di essere sepolto vicino al generale Lee: un Garibaldi che la guerra l’ha fatta per davvero. Un altro cognome altisonante e imbarazzante per l’ortodossia risorgimentalista è quello di Giuseppe Bixio, fratello del ben più noto Nino, e a lui opposto per scelta di vita (era un padre gesuita) e di campo. È stato dalla parte dei sudisti come prima aveva aiutato gli indiani nella loro resistenza al genocidio. La sua è stata una storia di stravaganze, temerarietà, coraggio e dedizione alla Fede.
Insomma in questa grande battaglia fra chi voleva l’unità e chi la libertà, dalla parte di Dixie c’erano anche un Garibaldi e un Bixio: sicuramente “buoni” per gli sconfitti ma quantomeno imbarazzanti per i vincitori sia nel vecchio che nel nuovo continente.”

La Redazione di Domus Europa ringrazia Gilberto Oneto per la disponibilità e la collaborazione.

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