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UCRAINA, STORIA PERSONALIZZATA DI UN NAZIONALISMO. Di Michele Antonelli.

Катерина

Alla proposta di scrivere qualcosa sulla situazione ucraina, il primo pensiero è stato: “Chi sono io, per scriverne? Con il fiume d’informazione che circola in proposito, un non-specialista, per non dire «uomo della strada», ha ben poco da aggiungere”. Ma poi ho ripensato a un anno e mezzo vissuto intensamente, di base a Kiev, con viaggi in tutto il paese, a metà degli anni ’90, in un progetto dell’Unione Europea per ridurre le perdite post-raccolta nella catena di distribuzione di frutta e verdura. Giornate di lavoro, pranzi con solenni brindisi “diplomatici”, nei sovkhoz e nei kolkhoz, le sconfinate aziende agricole di stato, ormai in corso di privatizzazione; serate e fine settimana di studio, di viaggi e di cultura, in magnifici teatri dell’opera, del balletto, di prosa. Lunghe discussioni di carattere storico, sociologico, con colleghi e conoscenti. E non mancò neanche una travagliata storia d’amore, che mi aprì le porte ad ambienti sociali e politici dei quali, altrimenti, avrei potuto soltanto supporre l’esistenza. Tutto ciò per dire che, quand’anche non avessi avuto alcun interesse per la geopolitica, qualche idea su quanto stava accadendo, preludio agli eventi dei nostri giorni, sarei stato obbligato a maturarla.

Il progetto su cui lavoravo era parte di un programma di assistenza tecnica alla Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), formata dai paesi che avevano costituito l’Unione Sovietica tranne le tre repubbliche baltiche. Che il legame tra questi paesi fosse ancora forte, lo deducevo dall’uso quasi esclusivo della lingua russa (sola lingua ufficiale del CSI) e dalla frequenza con cui incontravo persone originarie di altre repubbliche, come caucasici, centro-asiatici e soprattutto russi. Ma all’interno dell’Ucraina colpiva già una frattura, un contrasto tra due tendenze politiche: quella filo russa, piuttosto nostalgica dell’Unione Sovietica e del suo sistema sociale, e quella nazionalista, favorevole all’indipendenza e convintamente ostile ai russi. Oltre che nella denominazione delle strade (i nomi russi e sovietici erano stati sostituiti da quelli di personaggi ucraini, anche nazionalisti), la avvertii nelle conversazioni con i tassisti, uno dei quali raccontò di un programma televisivo che aveva dimostrato come i russi avessero sempre disprezzato gli ucraini, altri si mostrarono contrariati dal fatto che parlassi russo; su un treno, in una lite tra un controllore russofono e una passeggera che pretendeva le si parlasse in ucraino; nel disgusto espresso dalla mia insegnante di russo nel vedere i miei acquisti librari in lingua ucraina, bollati come letteratura eversiva, indegna di persone oneste. In merito, fu interessante leggere un articolo di un linguista, quotato professore universitario, il quale dimostrava come tra il russo e l’ucraino vi fosse una differenza non dissimile a quella tra lingue latine come l’italiano, il francese e lo spagnolo, motivo per cui l’ucraino doveva essere considerato una lingua a sé, piuttosto che una variante dialettale del russo.

In ambito lavorativo, le due suddette tendenze avevano un vago riflesso generazionale: le persone più attempate, inquadrate fin dall’infanzia nel sistema educativo sovietico (del tutto analogo a quello che mia zia raccontava dei tempi del fascismo), erano disturbate dalla crescente ondata nazionalista, mentre i giovani erano più interessati ed uno di loro rasentava addirittura il fanatismo.

Durante una festa di carnevale (in costume; un cantante in pensione mi aveva dato la possibilità di scegliere un bellissimo abito d’epoca dal guardaroba del Teatro dell’Opera) conobbi una giovane donna anglofona appartenente alla diaspora ucraina, che aveva colto un’opportunità di lavoro per tornare nella terra dei suoi genitori. Venni a contatto con il suo ambiente, persone che come lei erano “tornate” dagli Stati Uniti, dalla Germania o dalla Gran Bretagna; tutti istruiti, colti, che avevano rapporti professionali con le loro ambasciate oppure con il mondo dei media o dello spettacolo. Scoprii che, durante la Seconda Guerra Mondiale, la propaggine più occidentale dell’attuale territorio ucraino, parte di una regione chiamata Galizia (fino alla fine della Prima Guerra Mondiale divisa tra Polonia, Impero Austro-Ungarico e Prussia), aveva accolto gli invasori tedeschi come liberatori, costituendo unità militari che li avevano affiancati nella guerra contro i russi.

Mi interessai a Taras Shevchenko (1814 – 1861), poeta nazionale, noto anche come pittore, uomo dalla vita tragica e commovente. La mia amica me ne regalò una biografia in inglese (stampata nel 1988 in Canada), che evidenzia il suo spirito anti-russo: la sola tavola a colori di tutto il libro ritrae una mortificata ragazza incinta, accanto a un contadino che la guarda male, mentre sullo sfondo un militare si congeda su un cavallo impennato; è un quadro di Shevchenko che illustra il suo poema “Katerina”, ragazza ukraina sedotta e abbandonata da un ufficiale russo. Trovai altri esempi di quella letteratura didascalica in senso anti-russo, o resa tale dalle nuove edizioni, sapientemente illustrate.

Quel rifiuto dell’imperialismo russo ebbe la mia solidarietà, riportandomi a Puškin e a Mickiewicz, che avevano espresso sgomento davanti al monumento equestre di Pietro il Grande, in posa rampante, a San Pietroburgo. In particolare, Mickiewicz lo aveva confrontato con quello di Marco Aurelio, più composto, che trattiene il cavallo, simbolo di una Roma non più in espansione ma alla ricerca di pace, equilibrio. Però, già da allora dovetti riconoscere che la predilezione per quel “nostro” impero meno aggressivo, nella quale si poteva riconoscere la scelta della Polonia per il cattolicesimo, era ormai viziata dall’essere il trono dei papi tutt’altro che indipendente e sempre più in balia di un potere non meno rapace di quello di Pietro il Grande, le cui riforme e successiva espansione, dopo tutto, erano nate dall’esigenza di reagire a un’offensiva svedese.

La mia simpatia per il nazionalismo ucraino doveva decrescere ulteriormente negli anni successivi, via via che gli eventi ne rivelavano non solo la natura, ma anche una quantificazione monetaria: oltre 5 miliardi di dollari investiti dagli Stati Uniti per portare il Paese nell’orbita occidentale, secondo quanto Victoria Nuland ha dichiarato alla convention della U.S. Ukraine Foundation, nel dicembre del 2013. Quanto odio anti-russo hanno seminato, con tutti quei soldi? Una tale azione erosiva è più legittima di un intervento militare? Come già visto in Jugoslavia, il graduale risveglio di un’identità sopita si era trasformato in uno strumento di intolleranza e persecuzione.

Con la presa del potere grazie a un sanguinoso colpo di stato, i nazionalisti hanno mutato il loro desiderio di indipendenza nell’ostinata volontà di opporsi con le armi alle scelte indipendentiste delle regioni orientali. Ricordo la soddisfazione dei miei amici intellettuali, quando fu ristampato un corposo testo di Pietro Moghila, vescovo metropolita di Kiev il quale voleva, sì, preservare l’identità ucraina nell’Impero Polacco-Lituano, ma oltre all’ucraino parlava e scriveva ai fedeli in ben otto lingue. E ora, invece, la nuova dirigenza pretende di imporre l’ucraino come lingua unica, anche a popolazioni che non l’hanno mai parlato, con mezzi degni del più oppressivo imperialismo.

Tutto ciò squalifica ogni pretesa di superiorità morale, rispetto ai russi.

Come avranno vissuto queste mutazioni, i miei amici? Da veri intellettuali, amanti della bellezza e della giustizia, mi auguro che, come Puškin e Mickiewicz, riflettano sulla posizione dei due imperi a confronto e, se proprio non ce la fanno ad opporsi a quello dal cavallo più rampante, prendano almeno le distanze da esso.

Michele Antonelli

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