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SALUTE E LIBERTA’. OVVERO MEDICI E GIUDICI. Di Francesco Mario Agnoli

Non solo gli Stati, le Nazioni, gli uomini e… le liti “habent sua sidera”, ma anche le categorie professionali. Negli anni ‘80-90 del secolo scorso andavano per la maggiore i magistrati, che riempivano i mass-media delle loro gesta, ispiravano i giovani ad iscriversi alla facoltà di giurisprudenza, davano il batticuore ai politici. Oggi è il turno dei medici e, in genere, degli operatori sanitari, mentre giudici e pubblici ministeri non solo hanno perso il fulgore di un tempo, ma dopo l’affaire Palamara sono in  totale disgrazia. Il successo mediatico  dei magistrati traeva origine da Mani  pulite, il complesso cioè delle iniziative giudiziarie  di scoperta e contrasto della corruzione partitica. Oggi il successo e le virtù oracolari della classe medica (la classe politica non muove foglia che virologia non voglia) sono diretta conseguenza della lotta alla pandemia.

   Tuttavia, col susseguirsi delle ondate pandemiche e il prolungarsi e l’infittirsi delle restrizioni alle umane libertà ispirate  a livello mondiale dall’OMS e a quello nazionale dal CTS, riemerge, preziosa,  l’opera degli uomini di legge, che, pur decaduti dalle passate glorie, non si adeguano alla narrazione ufficiale, tutta politica e sanità, ma fanno questione di diritti umani.

  A prova di quanto appena detto si dovrebbe, per rispetto delle priorità temporali,  prendere l’avvio dalla sentenza n. 516 del Giudice di Pace di Frosinone in data 15-29 luglio 2020, ma, dal momento che  ne recepisce le motivazioni  di fondo, si dà la precedenza, in quanto più recente (16 dicembre 2020), all’ordinanza del Tribunale di Roma (in causa n. 45986/2020 R.G.) per concludere con l’ordinanza del TAR Lazio n. 7468/2020 in data 4 dicembre 2020 e quella del Consiglio di Stato in data 11 dicembre 2020.

   La causa trattata dalla VI sezione civile del Tribunale di Roma  ha  oggetto modesto: la convalida  di una intimazione di sfratto per morosità richiesta dal proprietario-locatore di un locale  commerciale e la conseguente opposizione dell’affittuario, che, oltre alla reiezione della domanda di convalida,  chiede la riduzione del canone divenuto eccessivamente oneroso nella situazione determinata dalla pandemia da Sars-Cov 2.  Osserva al riguardo il Tribunale  che in realtà le conseguenze negative  subite dall’esercente l’attività commerciale non sono “riconducibili alla emergenza sanitaria in sé intesa, ma al complesso normativo-provvedimentale che, su tale presupposto, è intervenuto sui diritti e sulle libertà dei cittadini, ivi compresi quelli dell’istante”.  Tale complesso normativo-provvedimentale  ostacola sì l’esercizio dell’attività commerciale  praticata nei locali, ma si tratta di un ostacolo che l’interessato avrebbe potuto rimuovere attraverso le normali forme di impugnazione degli atti della pubblica autorità.  E’, difatti, fuor di dubbio che le libertà fondamentali degli individui  sono state compresse  con l’uso di Dpcm,  atti di natura non  normativa, ma amministrativa e che tali rimangono anche nel caso che siano preventivamente legittimati da un atto avente forza di legge. Altrettanto pacifico  – come evidenziato dalla sentenza del Giudice di pace di Frosinone – che  un atto amministrativo non può porre limitazioni a libertà costituzionalmente garantite. Per quanto riguarda in particolare i Dpcm (nella fattispecie quello emanato il 26/4/2020) la deliberazione  31/1/2020 del Consiglio dei Ministri, dichiarativa, ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 7/comma 1 lettera c) e 24/comma 1 del Dlgs. n.1/2018, dello  stato di emergenza nazionale in conseguenza del rischio sanitario, non può attribuire al governo poteri normativi peculiari. Difatti il rischio sanitario non rientra fra gli eventi emergenziali di cui al citato art. 7 e, soprattutto, la  Costituzione prevede “una sola ipotesi  di fattispecie attributiva di poteri normativi peculiari  al Governo ed è quella prevista e regolata dall’art. 78 e dall’art. 87 relativa alla dichiarazione dello stato di guerra”. Nemmeno può ritenersi  che il Dpcm in questione derivi la sua efficacia normativa dal  Decreto-legge 25/3/2020 n. 19 in quanto non conforme all’art. 76 Cost., che non consente “la possibilità di delegare la funzione di porre  norme generali ed astratte ad  organi  diversi dal Governo, inteso nella sua  composizione collegiale, quindi con divieto per il solo Presidente del Consiglio dei Ministri di emanare legittimamente norme equiparate a quelle emanate in atti aventi forza di legge”.

  Dubbia anche, per le stesse ragioni, la costituzionalità dei successivi Dpcm disciplinanti la cosiddetta “seconda ondata” in quanto in contrasto con gli articoli dal 13 al 22 e  77 della Costituzione.

  Infine i Dpcm presentano, sotto vari aspetti, vizi   per così dire “interni”, perché in ogni caso la limitazione delle libertà individuali avrebbe richiesto la specificazione  di un termine temporale,  solo in apparenza assicurata dall’asserita temporaneità delle disposizioni. Al riguardo il Tribunale  richiama, facendole proprie, le motivazioni dell’Ordinanza  del Tar Lazio n. 7468/2020 (di portata generale anche se riguardanti specificamente il Dpcm 3/11/2020), dove si evidenzia  che le misure  assunte per fronteggiare l’epidemia “di cui la difesa erariale enfatizza la temporaneità, nei fatti risultano avere sostanzialmente perso tale connotazione stante la rinnovazione di gran parte delle stesse con cadenza quindicinale o mensile” (il che vale anche per alcune disposizioni dei decreti-legge “pandemici”, che scadono prima dell’esame del Parlamento per la conversione in legge). Vizi “interni” che, anche a voler superare  le (insuperabili) questioni di costituzionalità, ne comportano l’illegittimità per violazione di legge. Difatti  tutti gli atti amministrativi debbono essere motivati  (art. 3 legge  n. 241/1990) mentre nei provvedimenti relativi alla emergenza epidemiologica la motivazione è in massima parte  “per relationem, con rinvio ad altri atti amministrativi e, in particolare (ma non solo), ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (CTS)”, per altro a lungo non disponibili né conoscibili in quanto classificati come “riservati”. Da quando poi il dibattito politico l’ha imposta, la pubblicazione dei verbali  non ha sanato, ma  invece confermato la mancanza di un’adeguata motivazione, indispensabile  per consentire il controllo giurisdizionale, dal momento che la loro lettura non consente di valutare la ricorrenza di “un adeguato bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco, cioè basato su una istruttoria completa e su una chiara e univoca presa d’atto della situazione di fatto”. In tal senso anche la menzionata pronuncia del TAR Lazio: “dal DPCM impugnato non emergono elementi tali da far ritenere che l’amministrazione abbia effettuato un opportuno bilanciamento tra il diritto fondamentale alla salute della collettività e tutti gli altri diritti inviolabili”. Last but not least, i verbali  vengono pubblicati  con un  ritardo tale  da non consentire l’attivazione  della  tutela  giurisdizionale, in  quanto  troppo prossimi  alla scadenza dell’efficacia del provvedimento con conseguente improcedibilità  dell’azione giudiziaria eventualmente esperita.

   Da quanto sopra deduce il Tribunale romano ai fini della decisione della causa  che, “stante l’illegittimità del provvedimento che di fatto ha creato le dette limitazioni e compressioni dei diritti fondamentali… omissis …la parte ben avrebbe potuto (ed anzi dovuto) impugnare tale atto, con ciò  eliminando in radice le conseguenze che ne sono derivate”. Esattamente come ha fatto – si può aggiungere – il cittadino che, contravvenzionato per violazione del divieto di spostarsi dalla propria abitazione (nella prima epoca del “Io resto a casa e canto dal balcone”), ha adito il giudice di pace di Frosinone, conseguendo l’annullamento della contravvenzione. O come il  genitore dello scolaro di nove anni,  rivoltosi al TAR  Lazio per chiedere, in via cautelare,  la sospensione dell’efficacia della disposizione di cui all’art.1/comma 1 lettera b) del Dpcm 3/11/2020 in quanto il bambino, pur sano, presentava difetti di ossigenazione provocati dall’uso prolungato della mascherina durante l’orario scolastico (in questo caso il TAR Lazio  ha solo potuto imporre alla pubblica amministrazione la produzione di una relazione ai fini della decisione di merito, ma non deliberare sull’istanza cautelare in quanto, pur procedendo con la massima celerità, è stato in grado di emettere l’ordinanza soltanto  il 4/12/2020 cioè un giorno dopo la scadenza del Dpcm).

  Diversa, ma anch’essa tutta interna al complesso normativo-provvedimentale pandemico, la situazione  oggetto del provvedimento  di maggiore risonanza  sui mass-media: l’ordinanza 11/12/2020, con la quale il Consiglio di Stato,  su richiesta di una quarantina di medici specialisti, ha sospeso in via cautelare l’efficacia del provvedimento dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) in data 26 maggio 2020. Con tale provvedimento (confermato il successivo 22 luglio) l’AIFA, revocando una precedente  autorizzazione, aveva vietato l’utilizzo della idrossiclorichina per il trattamento del Covid-19 nelle fasi iniziali della malattia. Nella motivazione il Consiglio di Stato   evidenzia la non rispondenza a verità dell’assunto dell’AIFA di essersi limitata ad escludere il rimborso  del farmaco a carico del Servizio Sanitario Nazionale, ma di non averne vietato la prescrizione e, soprattutto, ribadisce, con una certa severità, che “nessuna delle  determinazioni  di AIFA, anche le più delicate, può sottrarsi, in uno Stato di diritto, al sindacato  giurisdizionale sul corretto esercizio della discrezionalità tecnica”. In conclusione il Consiglio di Stato ha affermato che l’AIFA poteva sospendere l’utilizzo del farmaco, “così limitando l’autonomia decisionale e la libertà prescrittiva  del medico”, solo in presenza “di un solido o almeno plausibile  fondamento scientifico”. In mancanza, come accertato nella fattispecie, “il divieto al singolo medico di prescriverlo costituisce eccesso di potere”.

   Forse, alla luce di quanto sta avvenendo in questi giorni nei confronti dei sanitari che non si adeguano ad ogni diktat governativo o manifestano perplessità sull’efficacia del vaccino, non è azzardato  ipotizzare che se, invece di rivolgersi al giudice amministrativo, avessero continuato a prescrivere la idrossiclorichina, i medici interessati sarebbero stati sottoposti a procedimento disciplinare (fino alla possibile radiazione) dai rispettivi Consigli dell’Ordine.

   In conclusione: rivolgersi al medico per la tutela della salute, ma al giudice per la libertà.

Francesco Mario Agnoli

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