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LA ZOONOSI: IL SALTO DEI VIRUS DAGLI ANIMALI AGLI UOMINI.

Ebola malattia emersa, per quanto si conosce ad oggi, la prima volta nel 1976, è una zoonosi. Una zoonosi era anche la peste bubbonica. Lo era la terribile influenza spagnola che si originò probabilmente in un uccello acquatico selvatico e che passata da vari animali amplificatori infettò gli esseri umani, uccidendone, si stima, fino a 50 milioni. Tutti i tipi di influenza sono zoonosi, compresa quella asiatica del 1957 che causò circa 2 milioni di morti. L’AIDS è una zoonosi che ha fatto registrare più di 35 milioni di vittime nel mondo (erano all’incirca 30 milioni quando Quammen scrisse il suo libro, Spill Over, sette anni fa), e che è stato rintracciato in tessuti umani conservati in un laboratorio databili all’inizio del Novecento. Non un nuovo patogeno quindi, ma che, come nel caso di Ebola, in anni più recenti ha subito continue mutazioni e che grazie alle modificazioni degli stili di vita, dei comportamenti, alla crescita demografica nonché agli spostamenti più rapidi e facilitati, è emerso nella popolazione umana. Le varianti dei virus in entrambi i casi hanno prodotto ceppi che hanno procurato una mortalità percentuale non omogenea nel tempo e nei differenti luoghi colpiti.

Il salto di un virus da un animale all’uomo è più comune che raro: corrisponde a circa il 60% delle malattie infettive. Il Vaiolo, che non è una zoonosi, è stato debellato grazie al vaccino ma anche al fatto che non è in grado di riprodursi se non negli esseri umani. Un parametro di studio noto come “dimensione critica della popolazione” ha un ruolo importante nella dinamica di malattie infettive non zoonotiche. Nel caso del morbillo è calcolata essere di cinquecentomila persone, ovvero una comunità di mezzo milione di abitanti può essere colpita da una epidemia di morbillo, ma in un tempo abbastanza breve la malattia scompare. Nel caso invece che la popolazione sia più di mezzo milione, il virus trova occasioni di sopravvivenza.

I patogeni delle zoonosi possono invece nascondersi, in animali serbatoio. E anche riapparire nel tempo. I virus si distinguono in due famiglie, quella DNA e quella RNA: gran parte dei patogeni emergenti al mondo sono virus RNA – ad esempio tutti i coronavirus – soggetti da un lato a molte mutazioni, che ne favoriscono la diffusione, dall’altro ad errori di replicazione che possono indebolirli.

A rendere difficile l’identificazione della specie serbatoio del virus può essere anche la sporadicità della malattia, in particolare quando si assiste all’esaurirsi di un patogeno relativamente poco contagioso ma altamente letale, che quindi non ha il tempo di diffondersi. Il virus però rimane presente nell’animale serbatoio che lo ospita.

Al tasso di mortalità di una epidemia contribuiscono vari fattori, alcuni dei quali assai variabili: la trasmissibilità del patogeno, le strutture sociali, l’appropriata risposta sanitaria, la conoscenza di terapie più o meno efficaci atte a contrastarlo. Quando si iniziò a studiare la prima Sars, emersa nel 2002-2003 nella provincia cinese del Guangdong, le preoccupazioni erano dovute all’alto tasso di trasmissibilità da individuo a individuo, e alla letalità, molto superiore a quella delle polmoniti da influenza. Si affermò che la presenza di super-diffusori tra la popolazione fosse un fattore fondamentale, e che troppo spesso non ci si rendeva conto della differente infettività tra gli individui contagiati. Il fatto decisivo nella lotta al contenimento della prima Sars fu che le persone infettive stavano troppo male per andarsene in giro, mentre l’influenza e altre malattie si comportano in modo opposto, il picco di infettività precede l’insorgere dei sintomi. A questa condizione fu possibile controllare il virus, che per altro rimaneva presente nell’animale serbatoio, potenzialmente pronto ad un nuovo salto di specie.

Ma come mai era emerso questo nuovo patogeno? Da quale animale serbatoio proveniva il contagio?

L’interesse culinario per le specie animali selvatiche in Cina pare non abbia molto a che fare con situazioni di indigenza, né con tradizioni arcaiche sebbene alcune parti di animali selvatici – ad esempio il pene di tigre – vengano utilizzate nella medicina popolare, quanto con la recente ricchezza economica e la nascita di mode e ostentazioni moderne, predilezioni che sono uno status symbol. Nella sola città di Canton vi sono oltre duemila ristoranti con animali selvatici nel menù: serpenti, ratti, zibetti, pangolini, uccelli, scimmie, tartarughe, ma anche cani e gatti, nonché pipistrelli. I cosiddetti wet markets, i mercati dove queste specie vengono mantenute ammassate, vendute e macellate, hanno immediatamente attirato l’attenzione, essendo ambienti favorevoli alla diffusione dei virus. Era accaduto anche con l’HIV, il cui passaggio all’uomo fu molto probabilmente causato della macellazione di uno scimpanzé infetto nell’Africa sub-sahariana.

I pipistrelli rappresentano all’incirca il 25% di tutti i mammiferi sul pianeta, e sono il serbatoio naturale di molti virus. Anche Ebola proviene in origine dai pipistrelli. Non è difficile capire il perché fin dall’inizio fu ipotizzata un’origine dai pipistrelli anche per la pandemia odierna di Sars 2, anche se non è stato individuato quale animale abbia fatto da intermediario e amplificatore. Può essere ben il caso che ve ne siano stati più di uno, come accadde per la precedente Sars. La tesi della fuoriuscita del nuovo coronavirus da un laboratorio di sicurezza di Wuhan, pur sapendo che episodi di contaminazione sono accaduti in passato, appare ragionevolmente più remota seppure non si possa escludere.

Se le pandemie non sono per nulla una novità storica, il loro significato culturale e il modo di affrontarle è cambiato, mentre è accresciuta la possibilità della loro insorgenza. La capacità di monitoraggio, i mezzi tecnologici, le diverse conoscenze mediche che si sono andate sviluppando, pur sempre nei limiti del metodo di indagine, è parte della questione, la cui vera problematicità appare l’esponenziale crescita demografica umana – si è passati da meno di 1 miliardo di individui all’inizio dell’Ottocento agli oltre 7,8 miliardi dei nostri giorni – che comporta un’espansione e una pressione che sottrae spazi vitali e habitat ad altre specie, una riduzione della biodiversità, la deforestazione, la messa in atto di allevamenti intensivi di animali, tutte occasioni potenziali per una zoonosi. L’interdipendenza è un fatto acclarato della vita.

La certezza, almeno a quanto affermato da David Quammen nel suo libro, è che l’esplosione di un virus quanto quella demografica di una specie prima o poi finisce.

P.A.

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