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DA LUCA PALAMARA AD AMEDEO FRANCO (QUALCHE RIFLESSIONE SULL'ANIMA PERSA DELLA MAGISTRATURA). Di Francesco Mario Agnoli

La vicenda Palamara (che do per nota)  ha rapidamente spostato il fuoco dell’attenzione dalle modalità di  funzionamento  del Consiglio Superiore della Magistratura (in particolare per quanto riguarda la copertura dei più importanti uffici giudiziari)   e dall’influenza determinante che vi ha, fin dal momento dell’elezione dei suoi componenti, l’Associazione Nazionale  Magistrati, alla  magistratura  in quanto tale e all’esercizio delle sue funzioni. Dopo il  ripescaggio dell’opinione di Francesco Cossiga    sull’Anm, “associazione tra sovversiva e di stampo mafioso”, si è passati alla definizione della magistratura  data da Marco Pannella: “corpo eversivo e golpista, che calpesta  giorno dopo  i diritti dei cittadini”,  e, in chiave più moderata (ma nemmeno tanto)  a tutte le ormai tradizionali accuse di politicizzazione. Così la Questione Csm-Anm, si è ben presto trasformata in Questione Giustizia, coinvolgendo di fatto l’intera magistratura nonostante l’ipocrita riserva di rito a favore della “grande maggioranza dei magistrati che fanno in silenzio il loro lavoro”. Al centro, appunto, il vecchio leitmotiv della politicizzazione, del resto reso ineludibile, ancor più che dagli intrallazzi con uomini di partito per la copertura dei vertici di questa o quella Procura, dalle frasi carpite dal “trojan” a Palamara a proposito della necessità  di attaccare, processandolo, Salvini, in replica all’osservazione di un collega che gli aveva fatto notare l’inconsistenza giuridica dell’imputazione.

  Senza che ce ne fosse bisogno, un ulteriore spinta è venuta dalla registrazione di un colloquio  risalente – pare – alla tarda estate del 2013 fra  un Silvio Berlusconi, fresco di condanna definitiva,   e il consigliere di cassazione  Amedeo Franco, che gliela aveva inflitta quale relatore nella fase di legittimità del processo “diritti tv Mediaset”, conclusosi  nell’agosto di quell’anno con la condanna del Cavaliere per frode fiscale. Nella registrazione si sente il consigliere parlare dei suoi problemi di coscienza,   qualificare la sentenza come già scritta, voluta dall’alto, molto in alto, e descrivere il collegio giudicante di cui faceva, suo malgrado, parte, come un vero e proprio “plotone di esecuzione”. Dal momento che nell’ambito nazionale  non vi sono organi giudiziari superiore alla Corte di Cassazione “dall’alto”, può significare solo dalla”politica”, probabilmente  con un implicito riferimento all’allora presidente della Repubblica.

    Sull’autenticità della registrazione e, quindi, del colloquio sembra non esistano dubbi. Tuttavia, anche a non voler dare troppo peso alle traversie giudiziarie in cui il consigliere Franco è poi incappato (rimaste senza esito per la sua morte nel 2019), vi sono buoni motivi per dubitare della veridicità  di queste “rivelazioni”, a cominciare dal fatto  che nel processo  Mediaset la sentenza della Cassazione non ha fatto che confermare la sentenza ugualmente  di condanna della Corte di Appello di Milano, a sua volta di conferma dell’analoga decisione presa in primo grado dal Tribunale. Di conseguenza,  ci sarebbero stati non uno, ma ben tre plotoni di esecuzione e salirebbe il numero dei magistrati-fucilatori, ossequienti, o per convinzioni ideologiche o  soggezione alle “pressioni”, agli input provenienti dagli alti livelli della Politica. Nonostante tutto poco credibile. Resta  però  il problema dei motivi della confessione. Soprattutto se i peccati confessati non sono veri e il vero peccato è la confessione.

   Purtroppo non bastano le perplessità sulle rivelazioni del defunto consigliere ad escludere l’influenza che, al di là anche delle pressioni e delle complicità partitiche, le ideologie politiche possono avere esercitato  nel caso specifico della sentenza Mediaset,  e che – questo è il punto –  potrebbero avere esercitato in una infinità di altri casi e continuare ad esercitare  in quella che dovrebbe essere l’imparziale amministrazione della giustizia.   Meritevole di particolare attenzione al riguardo l’intervento  di Ernesto Galli Della Loggia, “L’identità smarrita dei magistrati italiani” sul Corriere della Sera  del 28 giugno 2020. L’autore vi individua nel braccio di ferro fra  Procure e la Destra berlusconiana il momento in cui la magistratura ha subito “una trasformazione che ha finito col perderne l’anima”. Una perdita da attribuire  però ad un più lungo processo di avvicinamento al modesto livello etico che contraddistingue le istituzioni del  nostro Paese. Difatti “le donne e gli uomini dell’apparato giudiziario sono stati forse le maggiori vittime di quella duplice assenza di etica e di spirito corpo comune a tutta la struttura socio-statale italiana nel periodo della Repubblica”.  Se -scrive – “l’ideologia strutturante della magistratura è diventata ben presto la politica” ciò è dipeso dal fatto che la stessa Repubblica italiana “nata dai partiti e rimasta sempre dei partiti (…) ha potuto trovare solo nella politica, nella politica di partito, la sua vera ragion d’essere, in un certo senso  la sua ideologia fondativa”. In realtà anche prima dell’adeguamento a questa ideologia fondativa i magistrati italiani – potevano – sostiene Della Loggia – definirsi  comunque “politici” (in senso conservatore), ma  lo erano non perché “coltivassero  legami con qualche partito di centro o di destra, se ne attendessero qualche vantaggio o magari si sentissero impegnati in una qualche battaglia ideale a sfondo socio-politico”, ma “perché provenivano pressoché totalmente dalla borghesia, la quale allora era conservatrice, spesso e volentieri anche reazionaria”. 

    Diciamo “diversamente politici”, senza una vera e propria ideologia e, soprattutto, senza determinanti adesioni partitiche, ma per  la”naturale” condivisione di una cultura comune, che, secondo la tesi di Della Loggia,  venne meno  quando la società italiana “da un carattere dominante cetuale di tipo liberal-borghese con forti tratti reazionari la società italiana passò almeno tendenzialmente a una struttura democratico-interclassista” grazie alla mobilità sociale favorita dalla crescente scolarizzazione. Venuta meno “l’omogeneità/ solidarietà di fondo che in precedenza erano assicurate dalla comune origine socio-culturale” è subentrata l’ideologia politica di partito, caratteristica, come si è detto, della Repubblica italiana, nemmeno tamponata o corretta   da altri valori.  Difatti in Italia, a differenza che in altri Paesi, per ragioni storiche “questo venir meno di valori di tipo classista nei ceti professionali e negli alti uffici pubblici, verificatosi in tutte le democrazie non è stato compensato “da una diffusa cultura civica, da un’orgogliosa deontologia delle identità professionali, da antiche tradizioni di servizio allo Stato e di spirito di corpo”.

  Indubbiamente da meditare  anche se non necessariamente tutto vero. Senza dubbio occorre anzitutto  intendersi quando si usano termini suscettibili di significati  non sempre omogenei come “deontologia delle identità professionali” e “spirito di corpo”, ma per quanto mi riguarda  ho sempre avvertito la presenza di queste caratteristiche tanto in me quanto  nei colleghi che ho avuto occasione di più avvicinare, inclusi molti che pure vi accompagnavano una forte adesione ad una ideologia politica. Mi si potrebbe replicare  che al momento della mia nomina ad uditore giudiziario, nel remoto1963,  la magistratura della quale entravo a far parte proveniva tutta o quasi dalla borghesia dato che tutti noi, partecipanti al concorso per l’ammissione, avevamo alle spalle i tradizionali studi  classici, perché la maturità classica era  condizione necessaria per l’iscrizione alla facoltà di giurisprudenza, e lo stesso valeva, a maggior ragione,  per i colleghi che ci accoglievano, parecchi  dei quali  nati all’inizio del secolo o alla fine del precedente. Obiezione che potrebbe relegarmi nella categoria dei “magistrati di molti e molti anni fa”, individuati come politicamente  “conservatori” da Della Loggia. Vero, ma  necessariamente vi finiscono, assieme a me, tutti quei magistrati, quasi tutti più anziani di età e di carriera, che nel luglio del 1964, proprio a Bologna, dove svolgevo il mio apprendistato, costituirono, con immediato, notevolissimo successo, all’interno dell’Anm la “corrente” di Magistratura Democratica, dichiaratamente progressista e di sinistra e a lungo, di fatto anche se non dichiaratamente, fiancheggiatrice del partito comunista, rispetto al quale assunse non di rado anche posizioni di avanguardia (di “mosca cocchiera” secondo il polemico linguaggio dei giornali “conservatori” dell’epoca).

  Certamente in seguito hanno influito, e molto, le trasformazioni sociali, ma resta il fatto che, come quasi sempre avviene per le rivoluzioni,  quella che potremmo chiamare la contaminazione politica  è nata proprio all’interno  di questa magistratura  di origine borghese. Questo è il dato storicamente certo. Resta il problema se davvero questa contaminazione abbia  determinato, come scrive   Della Loggia, una deriva sfociata  nel “danno terribile occorso alla magistratura italiana: la perdita dell’immagine dell’imparzialità, che di conseguenza dissolve virtualmente ogni idea di giustizia”. Difficile negare deriva e danno, ma è consentito sperare che una parte consistente della magistratura italiana abbia trovato quanto meno  nell’orgoglio dello spirito di corpo e della deontologia professionale la forza capace di evitargli la perdita dell’anima?

Francesco Mario Agnoli

 

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