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AMAZZONIA, LO STERMINIO COLONIALE DIMENTICATO. Di Teresa Migliardi

In Amazzonia, il più vasto patrimonio di biodiversità del pianeta, vivono 240 comunità indigene. Per molte di esse “contaminarsi” con la popolazione urbanizzata del Brasile e, in senso più ampio,  entrare in relazione con gli occidentali si è rivelato un disastro. Da qui il rifiuto di molte comunità di avere qualsiasi tipo di contatto. Gli indios, che erano circa cinque milioni prima dell’arrivo dei portoghesi in Brasile, sono scesi a 800-900mila unità.

Lo sterminio degli indigeni abitanti in Amazzonia è frutto delle conquiste coloniali, ma anche delle più recenti speculazioni per estrarre in maniera intensiva minerali e idrocarburi. Negli ultimi cinquecento anni le comunità si sono viste sottrarre la loro terra fertile, le aree di caccia, gli animali che vi si riproducevano, i luoghi sacri dove sono seppelliti gli antenati e tante altre ricchezze. Si è trattato davvero di uno sterminio, il che giustifica il rifiuto di avere contatti con “noi”. Contatti anche molto pericolosi sul piano della salute, perché diversi indios, deportati nelle città brasiliane, sono morti a causa di malattie piuttosto banali, come l’influenza, verso le quali il loro scudo di anticorpi è fragile. In più, si sono aggiunte altre cattive abitudini, come eccesso d’alcool, depressione e suicidi.

I Krenak furono espulsi dalle loro riserve durante la costruzione della ferrovia Vitoria-Minas Gerais (1953). Di loro restano 320 individui. A causa del disastro ambientale di Samarco Mineradora, avvenuto nel 2015, quello che un tempo fu un paradiso ecologico ora è una lunga linea rossa e tossica, visibile allo sguardo, che scorre da Mariana fino all’Atlantico. Bere, pescare o fare il bagno in questo Rio inquinato è pericoloso.

Impianti per lo sfruttamento dell’energia elettrica minacciano gli Enawenê-nawê del Mato Grosso, così come i Kayapó dello Xingu, vittime della diga di Belo Monte. Poi ci sono gli Yanomami di Roraima, intossicati dal mercurio dei cercatori d’oro, che li uccidono per occuparne i territori. Oppure gli Awá del Maranhāo, costretti a fuggire da ruspe e motoseghe delle società che si appropriano del legno degli alberi; e gli Uru-E-Wau-Wau sterminati dagli allevatori di bestiame e, infine i Guarani, espropriati delle terre (sul sito survival.it si trovano dati sempre aggiornati).

Ci sono poi gli Xavante, di cui restano 18mila individui, i cui avi lottarono contro i conquistatori forestieri dell’oro, nella provincia di Goias. Dovettero scappare e dividersi dagli Xerente (un’altra famiglia di indios), frantumando la loro comunità in nuclei sempre più smunti e indifesi.

Ma la Costituzione brasiliana riconosce dal 1988 i diritti territoriali delle comunità tribali e nel 2002 il Brasile ha sottoscritto la Convenzione 160 ILO dell’89. Inoltre, nel settembre 2007 le Nazioni Unite hanno approvato la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni. Come mai, allora, gli indios vengono decimati? Per interessi economici, corruzione, indifferenza della politica, nonostante una legislazione che li tutela ma sempre più dimenticata.

Nel marzo 2018, ad Hannover, una delegazione Guarani è venuta a esprimere il suo appello. I delegati sono stati poi ricevuti in alcune sessioni della Settimana contro il razzismo in altre città europee (in Italia a Trento e Torino).

Il fotografo brasiliano Sebastião Salgado nel 2005 ha realizzato un sontuoso reportage a difesa della foresta amazzonica, un patrimonio di 390 miliardi di alberi, colpito da una deforestazione speculativa che l’ha ridotto del venti per cento e potrebbe dimezzarlo da qui al 2030. Noi, molto più modestamente, abbiamo attraversato l’Amazzonia nel gennaio 2018 per cercare di conoscere un minuscolo pezzetto di questo impellente e drammatico abuso. E l’esperienza è stata indimenticabile.

Teresa Migliardi

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