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GERUSALEMME E LA BASILICA "DEL SANTO SEPOLCRO". Di Franco Cardini*

Il Santo Sepolcro.

Le massima autorità cristiane di Gerusalemme, che hanno recentissimamente disposto una temporanea chiusura della basilica della Resurrezione all’accesso dei fedeli in risposta a una serie di disposizioni considerate vessatorie assunte o allo studio da parte delle autorità civili israeliane, non rappresentano soltanto le comunità cristiane greco-ortodossa, cattolica e armena: nella grande chiesa che si denomina di solito con l’appellativo greco di Anastasis (appunto “Resurrezione”), ma che tra i cattolici italiani è nota soprattutto come “chiesa del Santo Sepolcro”, sono presenti anche altre comunità,  quali quella monofisita di Siria e quelle copte egiziana ed etiope. Tutte hanno aderito al gesto di protesta e di denunzia in seguito al quale il più noto e venerato monumento cristiano della Città Santa resterà chiuso per non sappiamo quanto tempo.

Ma, al di là dei molti altri problemi dei quali essa è il centro, qual è l’autentico valore e l’effettivo significato di quella chiesa sotto il profilo storico e archeologico? I visitatori di oggi si trovano dinanzi a un edificio abbastanza enigmatico, che sorge nel quadrante nordoccidentale della “Città vecchia” di Gerusalemme, entro la cerchia muraria sostanzialmente intatta eretta nel Cinquecento dal sultano Solimano sostanzialmente rispettando il precedente perimetro crociato?

La basilica venne fondata negli Anni Trenta del IV secolo d.C. per volontà di sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, la quale secondo una nota leggenda – fissata alla fine del Duecento dal domenicano Giacomo da Varazze, vescovo di Genova, nello scritto denominato Legenda aurea – nel luogo nel quale secondo la tradizione essa avrebbe  miracolosamente ritrovato la collinetta del Calvario, la grotta del Sepolcro nella quale il corpo di Gesù era stato inumato e addirittura la croce sulla quale era stato inchiodato. All’epoca, la città di Gerusalemme non esisteva più: l’imperatore Adriano l’aveva rasa al suolo nel 135 per punire gli ebrei ribelli e sulle sue rovine aveva edificato la colonia romana di Aelia Capitolina, ricca di templi pagani alcuni dei quali erano stati fondati proprio al di sopra di quelli che per tradizione erano stati i luoghi consacrati dalla memoria religiosa ebraica e cristiana. Attorno alla basilica della appunto dell’Anastasis, ch’era orientata ad ovest in modo che il suo portale guardasse il Monte degli Olivi cioè dell’Ascensione – tutte le altre chiese cristiane, sorte fuori da Gerusalemme  sarebbero state invece orientale da allora in poi in direzione della “Città Santa”.

L’edificio costantiniano, a cinque navate,  aveva la forma tipica delle chiese paleocristiane che noi di solito definiamo “ravennate”: ad ovest di essa, dietro l’abside, un portico-giardino (detto “Paradiso”) la poneva in comunicazione con una costruzione cilindro-troncoconica in qualche modo  arieggiante nella forma e nelle dimensioni il pantheon di Roma: il centro di quella “rotonda”, come i pellegrini presero presto a chiamarla, era costituita dalla porzione di roccia all’interno del quale era stata scavata la camera sepolcrale che aveva accolto Gesù dopo la morte. Quello era, propriamente, il Santo Sepolcro: molte chiese cristiane conservano copie più o meno fedeli di quel monumento.

La basilica rimase intatta fino al 614, allorché un’incursione di persiani mazdei (vale a dire zoroastriani) la distrusse. Recuperata nel  630 e subito restaurata, non subì alcun danno dalla conquista di Gerusalemme da parte degli arabi musulmani guidati dal califfo Umar, il quale dal canto suo rispettò le chiese cristiane ma fondò, nel quadrante sudorientale di Gerusalemme, due moschee installate proprio al centro dell’acropoli sulla quale Salomone aveva fondato il suo Tempio: i bellissimi edifici si possono ancora ammirare dall’esterno per quanto ormai, dopo la seconda intifada, l’accesso ad esse da parte dei non-musulmani non sia più agibile. A distruggerla totalmente, dalle fondamenta, fu invece nel 1009 l’imam sciito-ismailita d’Egitto, il fatimide al-Hakim, noto anche in quanto fondatore della setta dei drusi.   

Ma gli imam egiziani successori di al-Hakim, e poi i califfi abbasidi sunniti di Baghdad, consentirono la riedificazione della basilica e della “rotonda” le quali, sorte a nuova vita grazie soprattutto ai fondi elargiti dall’imperatore romano-orientale di Costantinopoli,  dovettero la loro fase riorganizzativa al patriarca greco-ortodosso Modesto. Alla fine di quello stesso secolo, l’XI, Gerusalemme fu conquistata  nel 1099 da alcune migliaia di guerrieri e di pellegrini “franchi”, cioè euro-occidentali, alla fine di un singolare e ancor oggi poco spiegabile “pellegrinaggio armato” che noi siamo abituati a chiamare “prima crociata”.

I “crociati” fondarono a Gerusalemme una monarchia feudale che – dal momento che né il papa, né l’imperatore romano-germanico, né il basileus romano-orientale vollero o poterono assumersi al responsabilità di legittimarla – si può paradossalmente considerare il primo regno europeo superiorem non recognoscens. Durante la durata della sovranità di Gerusalemme da parte di quel regno, tra 1099 e 1187, la basilica del Santo Sepolcro venne restaurata in forme romanico-gotiche assumendo una forma molto differente dall’originale e ch’è grosso modo quella che ancor oggi ammiriamo.

Nel 1187 i “franchi” vennero cacciati dalla Città Santa: i successori sovrani che la governarono furono prima i sultani ayyubidi del Cairo (discendenti del conquistatore musulmano Saladino) fino a metà del XIII secolo, poi i sultani  “mamelucchi” (una federazione di tribù di guerrieri originariamente schiavi) d’Egitto fino al 1516, infine i sultano ottomani d’Istanbul che governarono l’Egitto fino al 1918 (anche se negli ultimi anni tale paese era divenuto parte dei possessi coloniali britannici. Gli europei occidentali provarono a organizzare fra XIII e XV secolo varie crociate per riappropriarsi di Gerusalemme, ma tutte invano. Tuttavia, i pellegrini cristiani, sia pure soggetti ad alcune tasse anche gravose e a qualche angheria, continuarono a visitare il Santo Sepolcro dove i musulmani avevano consentito alle varie comunità (esclusa quella latina) di  reinstallarsi ma dove, dalla metà del Trecento, grazie ai buoni uffici congiunti del sultano mamelucco del Cairo e del suo buon alleato il re angioino di Napoli, poterono giungere anche dei frati francescani che ottennero per sé un piccolo convento sulla cima del Monte Sion, a un passo dalla porta meridionale d’accesso alla cinta muraria di Gerusalemme, dando vita alla gloriosa istituzione della Custodia Francescana di Terrasanta. Solo più tardi fu possibile rifondare stabilmente un patriarcato latino di Gerusalemme (lettera apostolica Sanctissimus Dominus di Pio IX, datata  10 dicembre 1847), che si affiancò ad analoghe istituzioni ortodosse e protestanti benevolmente – ma non gratuitamente – accolte dai sultani d’Istanbul.

D’altronde, con gli ottomani, le complesse vicende politiche, economiche, diplomatiche e militari del rapporto tra la corte sultaniale d’Istanbul e le varie potenze europee – soprattutto il regno di Francia e l’impero dello zar di Russia, poi anche il Sacro Romano Impero divenuto nell’Ottocento impero d’Austria – fecero sentire la loro influenza non sempre concorde sulla Terrasanta: solo per dirne una, la cosiddetta “guerra di Crimea” (1853-56) che oppose una coalizione franco-britannico-turco-piemontese allo zar ebbe origine da un apparentemente banale episodio accaduto in Terrasanta,a  Betlemme.

I sultani d’Istanbul notarono subito, per la verità, che la coesistenza tra i cristiani in Gerusalemme – a parte le loro tensioni con musulmani e con ebrei – non era ideale. Nella chiesa della Resurrezione la necessità che ciascuna comunità cristiana vi fosse rappresentata ed avesse per sé almeno una cappella con altare comportava incidenti continui, spesso risolte in risse violente e anche in qualche vero e proprio fatto di sangue. Per ovviare a ciò, il sultano concesse nel 1594 a due famiglie musulmane (i Nusseibeh e gli Yudeh)  il privilegio di presidiare la basilica e di mantenervi  anche con le armi  l’ordine per impedire ai cristiani di azzuffarsi. I militi della polizia israeliana – tutti appartenenti a famiglie israeliane musulmane – che ancor oggi costituiscono il “corpo di guardia” all’entrata della basilica sono gli eredi di quel reparto militare organizzato dal sultano: e difatti, nei giorni di festa, vestono ancora con grande solennità e severità i loro antichi abiti ottomani con tanto di splendide scimitarre al fianco.

In realtà, il sultano si guardò bene dal limitarsi a questi provvedimenti pittoreschi ancorché efficaci. Nel 1757 un “firmano” (decreto) sultaniale stabilì quali fossero i “Luoghi Santi” cristiani assegnati a ciascuna confessione: i favoriti furono evidentemente gli ortodossi, in quanto – greci o arabi che fossero – erano evidentemente sudditi di  Istanbul, mentre i cattolici (per quanto di antiche e solide origini, sino dal Cinquecento, fosse l’amicizia tra regno di Francia e impero ottomano) venivano in quanto stranieri meno favoriti. Nel corso del secolo successivo le discussioni su quello ch’era ormai lo status quo si fecero intense in quanto le potenze cattoliche (Francia e Austria) ne chiedevano una revisione mentre lo zar, il quale si considerava il protettore di tutti i cristiani che nel mondo avessero abbracciato al confessione ortodossa, pretendeva un trattamento privilegiato. Il congresso di Parigi, nel marzo del 1856, concludendo la guerra di Crimea apportò qualche modifica allo status quo, che tuttavia rimase il provvedimento-quadro sulla base del quale si organizzò al vita delle comunità cristiane di Terrasanta da allora fino al 1918. Caduto con la sconfitta del 1918 il sultanato, furono le potenze che amministravano l’area siropalestinese per conto della Società delle Nazioni in quanto titolari di un “mandato” (una sorta di delega coloniale più o meno camuffata) a mantenere e garantire l’osservanza dello status quo, nonostante lo stato di tensione e di sofferenza delle comunità cristiane locali e i non rari incidenti. Dal 1948 al 1964 la città vecchia di Gerusalemme fu quasi subito annessa al regno di Giordania, che rispettò i termini del vecchio accordo; sostanzialmente lo stesso è accaduto dal giugno 1967 in poi, da quando cioè l’autorità israeliana, in seguito alla guerra “dei Sei Giorni”,  si è unilateralmente impadronita dell’area orientale della Città Santa, nel perimetro della quale la “città vecchia” e i Luoghi Santi ebraici, cristiani e musulmani sono inclusi.

I rapporti fra il governo israeliano e le  comunità cristiane si sono da allora mantenuti sostanzialmente corretti, nonostante alcune difficoltà e un clima che, senza essere ostile, non si può nemmeno definire amichevole. Ma forse la recentissima esternazione del presidente Trump, che contraddice alla risoluzione delle Nazioni Unite secondo al quale Israele dovrebbe rientrare nei suoi confini precedenti il giugno del 1967, ha determinato una svolta  nel governo e in una parte del mondo politico israeliano. La decisione delle autorità cristiane della Città Santa apre un periodo di crisi del quale risentiranno senza dubbio i fedeli e i pellegrini, ma anche la stessa società dello stato ebraico che in questo momento appare a sua volta scossa e divisa: il prestigio di Nethanyahu appare compromesso da ombre sulla sua  figura morale, mentre la recente ordinanza governativa riguardante l’incarcerazione minacciata  per i rifugiati africani considerati “irregolari”, sostenuta da un forte movimento xenofobo antiafricano, rischia di diventare un boomerang. In questo contesto, episodi come quello recentissimo e agghiacciante di un soldato israeliano che uccide a freddo un palestinese (che peraltro lo aveva aggredito) e al quale vengono comminati otto soli mesi di carcere (un ragazzo palestinese che scaglia pietre contro un picchetto armato  può prendersi fino a  quattro anni di detenzione) sono sintomi di una situazione che rischia di esplodere da un momento all’altro.

Franco Cardini

*Tratto da “Avvenire”.

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