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LA RIFORMA DEL SENATO E IL PARTITO DELLA NAZIONE. di Francesco Mario Agnoli

La camera del Senato italiano

Dopo l’accordo intervenuto con i dissidenti della minoranza interna del Pd sembra ormai certo che il presidente del consiglio riuscirà a portare in porto, sostanzialmente nei termini da lui voluti, la riforma del Senato, anche senza il soccorso delle truppe cammellate verdiniane e dei sempre più numerosi transfughi di Forza Italia, tutti ansiosi di acquistare benemerenze per salire sul carro del vincitore (futuro partito della nazione). Si è in presenza di accordi e convertiti, palesi ed in pectore, così volonterosi e numerosi che, se non fosse per gli ostinati di Lega e M5S, potrebbero addirittura fare venire meno la necessità di una definitiva approvazione della riforma attraverso il referendum popolare ripetutamente evocato da Renzi a dimostrazione del suo rispetto per la volontà dei cittadini, e che è escluso dall’art. 138/3° comma della Costituzione quando la legge di revisione costituzionale “è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna della Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.
Probabilmente, con l’improntitudine che si ritrova, lo avrebbe fatto in ogni caso, ma la pacificazione all’interno del partito ha consentito a Matteo Renzi, sempre attentissimo alla promozione della propria immagine, di sfruttare in pieno l’occasione del viaggio negli States e all’ONU per assicurare i rappresentanti politici dell’universo mondo che grazie alla sue riforme l’Italia sarà ben presto leader in Europa. Difatti la riforma delle riforme è fin dal progetto formulato all’inizio del suo mandato governativo quella portata dal disegno di legge costituzionale S. 1429: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”. Una riforma dai contenuti molto più ampi, ma che certamente ha il suo cuore nella mutazione del Senato in organo di rappresentanza degli enti territoriali, mentre la rappresentanza della Nazione viene attribuita alla Camera dei deputati quasi in esclusiva (“quasi” perché il Senato conserva qualche partecipazione alla funzione legislativa con particolare riguardo all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea). Si tratta, quindi, non tanto di un semplice contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni attraverso la riduzione del numero dei senatori e la gratuità delle loro prestazioni, quanto di una profonda trasformazione del sistema voluto dai padri costituenti, dagli autori di una Costituzione che evidentemente Renzi, al contrario della vecchia guardia del suo partito, non considera “la più bella del mondo”, ma, al contrario, tanto inadeguata da rendere indispensabile la sua modifica se l’Italia vuole riconquistare in Europa il posto che le compete.
Tecnicamente si è in presenza del passaggio dal bicameralismo perfetto a un bicameralismo “imperfetto” o “differenziato”. Modifica di non poco conto dal momento che in una repubblica parlamentare, quale è l’Italia, l’organo centrale su cui si regge l’intero sistema costituzionale è il Parlamento, al quale, accanto alla funzione legislativa che storicamente lo caratterizza, nelle democrazie moderne viene attribuito anche il compito, altrettanto essenziale, di dare, negare, revocare la fiducia ai governi. Ora è indubbio che il Parlamento può consistere anche di una sola Camera, ma la scelta fra mono- e bi-cameralità, pur se non incide sulla sua natura parlamentare, ha conseguenze rilevanti sull’intero sistema. E’ stato, difatti, proprio in considerazione del ruolo centrale del Parlamento che i costituenti del 1948, volendo evitare sia derive autoritarie sia degenerazioni assembleari (queste ultime più facili a verificarsi quando il potere si concentra in una sola Camera), hanno optato per la bi-cameralità perfetta e suddiviso il Parlamento in due rami differenziati per elettorato attivo e passivo, ma muniti di identici poteri in modo da consentire, nel passaggio da una Camera all’altra, ripensamenti, correzioni, miglioramenti. Si tratta insomma di quei bilanciamenti così essenziali e determinanti per il mantenimento della democrazia e del buon governo. Difatti le dottrine costituzionali concordano nel ritenere che la principale funzione del bicameralismo è di assicurare l’equilibrio fra i poteri dello Stato. Per il conseguimento di questo fine non tutti ritengono essenziale il bicameralismo perfetto o paritario, ma certamente occorre che anche la Camera munita di minori poteri sia in grado di condizionare l’altra e di incidere effettivamente sulla vita dello Stato.
Forse si è trattato di una scelta dettata dalla convinzione che l’argomento fosse più facilmente apprezzabile dall’opinione pubblica, ma le opposizioni, tanto esterne che interne, non hanno colto il punto critico della riforma e hanno impostato la polemica sul venir meno dell’elezione diretta dei senatori, che adesso (salvi gli aggiustamenti, non ancora del tutto chiari nel loro esatto contenuto, previsti dall’accordo di Renzi con l’opposizione interna, ma che comunque non incideranno sul testo della norma costituzionale) saranno scelti, in numero di 95 in totale (i 5 rimanenti sono di nomina presidenziale), dai consigli regionali tra i propri membri e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori. In realtà si tratterà sempre di persone che attraverso il voto degli elettori hanno avuto, sia pure per funzioni diverse, la fiducia dei loro concittadini sicché, anche per effetto della relativa ristrettezza del corpo elettorale che li ha scelti, assai modesta si presenta la violazione del principio della elettività popolare.
Ciò che invece si indebolisce e, come si è detto, meritava maggiore attenzione da parte degli oppositori è l’indebolimento del delicato meccanismo degli equilibri costituzionali, determinato non solo dalla scelta di un bicameralismo imperfetto (molto), ma altrettanto e forse ancor più dalle altre modifiche portate alla Costituzione dal disegno di legge S. 1429, strumentali al rafforzamento dell’esecutivo nei rapporti con gli altri poteri (a sistemare la magistratura si è provveduto in anticipo) e alla realizzazione di un sistema centralista e tendenzialmente autoritario, cui mira in particolare la revisione del titolo V della parte II della Costituzione. Una revisione che non si limita all’abrogazione delle province, ma che interviene pesantemente sulla ripartizione della competenza legislativa e regolamentare tra Stato e Regioni, di cui all’art. 117 Cost. In particolare vengono redistribuite fra Stato e Regioni le materie finora oggetto di competenza concorrente, ora soppressa, e lo Stato si assicura la parte del leone, attribuendosi in via esclusiva in particolare la tutela e la promozione della concorrenza, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, le norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro pubblico, le disposizioni generali per la tutela della salute; la sicurezza alimentare; la politica del lavoro nei suoi vari aspetti, l’ordinamento scolastico, l’istruzione universitaria ecc. A scanso di equivoci e per evitare sorprese, viene anche introdotta in Costituzione, a rafforzamento del centralismo (Renzi potrà dire ai suoi oppositori interni che il “centralismo democratico” è cosa di sinistra) la cosiddetta “clausola di supremazia” che consente al governo di richiedere che la legge statale intervenga, prevalendo su quelle regionali, anche in materie non attribuite alla sua competenza quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero a tutela dell’interesse nazionale. (il che può significare “sempre”).
Questo sul piano costituzionale, dei rapporti fra i poteri dello Stato e fra Stato e gli enti territoriali superstiti (Comuni, Città metropolitane, Regioni), che pure sono, assieme allo Stato, parte costitutiva della Repubblica (art. 114 Cost.). Sul piano politico la situazione è ancora peggiore, perché l’indebolimento degli equilibri costituzionali si traduce in una profonda alterazione dei rapporti fra partiti, uno dei quali viene trasformato, quanto meno pro tempore (si spera sia davvero pro tempore), nonostante la contraddizione nel Sovrano assoluto della Repubblica. Sotto questo aspetto va detto che una volta tanto l’opposizione di destra è stata più pronta di quella di sinistra, interna ed esterna al PD, a comprendere come anche la nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum, pur varata prima (una priorità che dimostra come il disegno venga da lontano e sia stato accuratamente studiato) risulti funzionale a questo esito. Grazie all’Italicum il partito uscito vincitore dal ballottaggio avrà il controllo assoluto della Camera dei deputati. Quindi, per effetto della riforma costituzionale, sia del legislativo, di cui la Camera è ormai l’effettiva titolare, sia dell’esecutivo dal momento che il governo da quella Camera viene nominato. Al tempo stesso il Ddl 1429 nella sua seconda parte riduce ai minimi termini la possibilità di efficace contrasto da parte degli enti locali sopravvissuti, in particolare delle Regioni anche nell’improbabile caso che le elezioni locali avessero un risultato totalmente opposto a quelle nazionali.
In definitiva, in termini partitici il progetto è, come qualcuno ha scritto “piddì for ever” (“si scrive PD, si legge partito della nazione” – anche questa non è mia -).
Francesco Mario Agnoli

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