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Minime Cardiniane (n° 63, 23 Febbraio/n° 64, 1 Marzo). di F. Cardini

Minima cardiniana, 63

Domenica 22 febbraio. I domenica di Quaresima

IL PRIMO COMANDAMENTO

Apriamo il periodo quaresimale con una meditazione dedicata al legame profondo che unisce tutti i figli di Abramo. Ce n’è bisogno, in un momento come questo.

Da dove “nasce”, da dove “proviene” il monoteismo? Il “mito delle origini”, aspetto tra i più pervicaci del pregiudizio evoluzionistico tanto duro a morire, si fonda sulla dogmatica e deterministica certezza che il monoteismo sia il “naturale” esito del lungo cammino delle forme religiose che il genere umano ha elaborato dalla barbarie idolatra e politeista alla “superiore” civiltà monoteistica, magari a sua volta anticipatrice della suprema civiltà della “liberazione” dal Divino cui l’Occidente è approdato. Non trova alcun posto, in questa parabola tanto semplice e razionale, il salto-di-fase o meglio la rivoluzione qualitativa rappresentata dal passaggio tra sistemi religiosi mitico-immanenti (o “religioni naturali”, come dicono gli storici e i sociologi delle religioni) a sistemi religiosi storico-trascendenti (o “religioni rivelate”).

Alla luce del pregiudizio evoluzionistico, ci si è chiesti in che modo Abramo, che pur venerava degli idoli, sia potuto passare al culto del Dio unico e se e in che misura il monoteismo solare del faraone Amenofis IV (Akhenaton) abbia potuto costituire un modello per quello di Mosè. Tutto ciò astrae da quel che narra il Genesi al capitolo 12: il Signore che parla ad Abramo, il Suo ordine (“Va’ via dalla tua terra natale…”), la Sua promessa (“Farò di te un grande popolo,… benedirò coloro che ti benediranno…”). E’ un fatto nuovo, unico, irripetibile nella storia fenomenologica delle religioni: il Patto tra l’Onnipotente e un uomo, la volontà e la potenza di Dio che non costituiscono alcun “mito”, alcun racconto simbolico, bensì irrompono direttamente nella storia e la mutano per sempre. Senza quel patto fra Dio e Abramo non si capiscono né Mosè, né Gesù, ne Muhammad. Se il Dio unico ha parlato in tutti i tempi a tutti gli uomini, la molteplicità degli dèi e dei culti che ne è scaturita dipende dal carattere indiretto, mitico-simbolico, con il quale Egli si è espresso: dal suo linguaggio fatto di simboli, di stelle del cielo, di tempesta, di fuoco, di animali, di piante, di stagioni.

Ma al popolo che Egli ha scelto, Dio parla il linguaggio diretto e terribile della semplicità. Storici, filologi, archeologi e antropologi tendono a collocare attorno al XVIII secolo a.C. la migrazione di Abramo lungo la “fertile mezzaluna” dalla Caldea alle coste del Mar di Levante; quindi, dopo la lunga parentesi egizia, al XIII circa il nuovo incontro fra Jhwh e un trovatello ebreo divenuto principe egizio, quindi transfugo presso i madianiti, poi tornato al suo popolo dopo un nuovo incontro con Jhwh (il roveto ardente e inconsumabile dell’Oreb) e divenuto profeta (“Così dirai agli israeliti: Colui che è con me mi ha mandato a voi!”, Esodo, 3, 14). Ottenuto faticosamente il consenso del faraone per uscire dalla terra d’Egitto, Mosè ascende la montagna del Sinai (si discute ancora sull’ubicazione del Gebel Musa, il “Monte di Mosè”) e sulla cima di essa riceve dalla parola di Dio – che il suo popolo, alla radice del monte, intende come “tuoni, lampi, suono del corno e monte fumante” (Esodo, 20, 18) – un codice di ordini destinato a restar celebre e costituito di un “decalogo”: appunto, dieci comandamenti (Esodo, 20, 1-17).

Si tratta di regola tutte in apparenza abbastanza semplici, lo scopo delle quali è l’assicurazione dell’ordinata convivenza all’interno del Popolo di Dio e in modo da distinguere esso da tutti quelli che lo distinguono. La cifra fondamentale di quel sistema etico-normativo riposa sul concetto di unicità: unico Dio, unità del Suo popolo, rigorosa distinzione tra esso e il resto del mondo. I successivi libri della Torah (vale a dire il “Pentateuco”, i cinque libri della Legge), soprattutto il Levitico e il Deuteronomio, s’incaricheranno poi di precisare e di approfondire il contenuto sintetico dei comandamenti. Ma il primo resta basilare: esso s’incentra sull’identità di Dio (“Io sono Jhwh Dio tuo che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa della schiavitù”; “Non ti approprierai degli altri dèi che sono contro di me”; “Non ti fabbricherai alcun simulacro, quale immagine di tutto ciò che è in alto nel cielo, giù sulla terra o nelle acque sotto la terra”: “Non ti prostrerai dinanzi a loro né li servirai, poiché io sono Jhwh tuo Dio, un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione. Ma che usa misericordia in modo sconfinato per coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti”. Qui Jhwh – o, per i non-credenti semplicisti, Mosè; o, per i non-credenti colti, il Legislatore – ha il principale scopo di distinguere il popolo d’Israele dal circostante milieu idolatra e politeista: soprattutto dalla cultura egizia, dalla quale esso sta uscendo e che ha su di esso lasciato un’impronta profonda.

Sarà una lunga e complessa elaborazione teologica a tradurre in termini di esclusivo monoteismo questo perentorio comando di un “Dio geloso” che non rivela né la falsità né tanto meno l’inesistenza di altri esseri supremi, ma che vincola il Suo popolo a un’adorazione esclusiva proclamandosi “geloso” e presentandosi come inflessibile; la Sua misericordia è riservata solo a chi Lo ama e Gli ubbidisce.

Ma questa è, appunto, la chiave di tutti: il popolo di Dio, per esser tale, è rigorosamente tenuto al rispetto del Decalogo che fa di lui un popolo leale, fedele, impegnato alla mutua amicizia. Il dettato del Genesi, per il cristiano, si spiega trovando la sua sintesi nel Vangelo (Matteo, 22, 37-40) dove i dieci comandamenti vengono risolti a due: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i profeti”.

Gesù riconduce dunque il decalogo a due blocchi etico-normativi: il primo corrispondente a Esodo, 2-11 e riassumente il dovere della monolatria (obbligo di adorare un solo Dio: coincidente con il monoteismo e magari in esso incluso, tuttavia non identico rispetto ad esso), con il divieto di nominare “invano” il Suo nome e di santificare i giorni festivi a Lui dedicati; il secondo corrispondente a Esodo, 12-17 e riguardante i rapporti tra i componenti del popolo all’interno di esso. L’amore assoluto e totale per Dio include quello per il prossimo e s’identifica con esso. Le conseguenze di un tale dettato in una religione che non è più “etnica”, non si riferisce a un solo popolo, ma che diventa universale – per cui l’amore rivolto al prossimo diventa quello per ogni singolo componente del genere umano – sono rivoluzionarie, dirompenti. Tutto ciò è contenuto in quel Primo Comandamento che una stanca consuetudine formale ci fa sembrare ispirato a una piatta banalità e che è viceversa di un’altezza e di una profondità vertiginose. FC

Minima cardiniana, 64

Domenica 1 marzo. II domenica di Quaresima

DI NUOVO SUL PRIMO COMANDAMENTO

Parlavamo, la scorsa volta, di questioni teologiche. Qualcuno mi ha chiesto a che cosa servono, visto che non interessano più nessuno. Qualcun altro mi ha domandato se non sarebbe meglio dir pane al pane e vino al vino e proclamare che queste cose ormai sono finite, non sono più d’attualità.

Se volete sapere il mio parere al riguardo, ecco qua.

“Io sono il Signore Dio tuo; non avrai altro dio all’infuori di me”. E’ così, bello semplice, perentorio. Così come a noi non più giovani ce lo insegnavano la nonna e il catechismo. Studiato bene e da vicino, ricorrendo al testo ebraico e confrontandolo con quello greco “dei Settanta” e con le molte versioni latine a partire dalla Vulgata di san Gerolamo, si rivela di una profondità insondabile e di un’altezza vertiginosa. Limitiamoci a metterlo in rapporto con la situazione delineata dall’Esodo, quella torma di schiavi usciti dall’Egitto dove molti di loro avevano pur lasciato il sogno di una vita dolce e pacifica (si è affermato che è stato più facile far uscire Israele dall’Egitto che non l’Egitto dal cuore d’Israele), quell’accozzaglia di gente piena di paura eppure anche di speranza che cerca di diventar popolo e che si vede circondata, assediata, da genti diverse che hanno a disposizione legioni intere di dèi meravigliosi e terribili, seducenti e mostruosi.

Ma siamo sicuri che siano proprio questi problemi storici, archeologici, filologici e antropologici a interessarci, noialtri che siamo credenti nonostante tutto e ci sentiamo per questo pochi e isolati, o che fingiamo di aderire a un Dio che non ci sta più nella mente e tantomeno nell’anima, o che lo abbiamo rifiutato e dimenticato da tempo, o che lo abbiamo perduto o gettato via come si perde o si getta via l’orsacchiotto di pelouche della prima infanzia? Noi che questo Dio nascosto e silenzioso Lo rimpiangiamo ma non riusciamo più a ritrovarLo, lo chiamiamo e Lui non ci risponde, magari Lo bestemmiamo senza creder più in Lui e senza nemmeno accorgerci quindi della disperante vuotezza del nostro stesso turpiloquio. “Dio! Se Lo vedessi!…”, come dice l’Innominato del Manzoni.

Molti di noi sono, o si dicono, o si credono ancora cristiani. Ma non siamo più, tuttavia, una Cristianità. Il Dio di Abramo, d’Isacco, di Giacobbe, di Mosè, di Gesù, di Muhammad, può ancora stare alla base delle nostre speranze e delle nostre paure, delle nostre scelte e dei nostri pregiudizi: ma non va al di là del nostro ego individuale. Essere Cristianità significa fondare nel Dio di Mosè interpretato dalla tradizione cristiana tutta la vita comunitaria: la legge, la scienza, l’economia, il diritto, la cultura, la bellezza, la libertà. Siamo stati Cristianità, fra IV e XVI secolo, massimo XVIII: non eravamo migliori, ma Dio stava al fondamento comune della nostra civiltà. Da oltre due secoli il “processo di secolarizzazione” unito al crescente primato dell’individualismo, del razionalistico, dell’economico e del tecnologico ci ha abituato a vivere sotto un cielo vuoto.

Ma allora, con che cosa Lo abbiamo sostituito? Come abbiamo riempito questo spazio lasciato vuoto e questa vuotezza angosciante? Il testo biblico del primo comandamento prosegue oltre l’enunziato iniziale, avvertendo: non costruirti altri dèi di legno, o di metallo, o di pietra, o di coccio. Quali dèi ci siamo creati per mettere al posto del Creatore? Il messaggio di Dio sul Sinai arrivava dritto al cuore del nostro Essere: ma a noi l’Essere non interessa più, al massimo interessa l’Esistere; e soprattutto l’Avere, il Possedere, il Dominare. Nella società del consumo e dello spettacolo, delle conquiste della scienza e dell’angoscia della morte che si allunga sul filo dell’allungarsi dell’esistenza, Dio è assente o comunque lontano, ma la tirannia dei millanta dèi che Lo hanno sostituito è angosciante e perentoria. Uno soprattutto: e lo conosciamo dal Vangelo, che gli conferisce un nome bislacco e un po’ ridicolo. Ricordate? Non si può servire a Dio e a Mammona.

Ecco dunque l’altro dio, l’Antidìo che c’imprigiona, ci ricatta, ci tormenta, ci possiede. Il dio che inseguiamo e che ci sfugge, che ci tenta e c’illude per abbandonarci e farci disperare. Chiamatele come vi pare: il suo nome è Legione. Molti, per semplicismo o per superficialità, lo chiamano Denaro. Nietzsche, che ha compreso come forse nessun altro, sul nascere. Il dramma della Modernità Occidentale, lo chiama Volontà di Potenza: e ne conosce il carattere esclusivo e insaziabile, la capacità infinita di sedurre e di trascinare, l’illimitato potere d’illudere e di deludere. Questo dio implacabile è all’estremo opposto della pace: di quella con se stessi e di quella tra le singole persone e i popoli. E’ il contrario, anzi il rovescio, dell’Altissimo, Onnipotente, Bon Signore di Francesco d’Assisi. E’ un dio che spoglia, che ruba, che rapina, che violenta, che uccide: un dio che fa attorno a sé il deserto e lo chiama Progresso, lo chiama Ragione, lo chiama Libertà, lo chiama perfino Diritti dell’Uomo (basta intendersi, poi, su chi sia l’Uomo). Un dio che ci fa gridare in coro che uccidere nel nome di Dio (il Dio dei Padri: Elohim, Adonai, Allah…) è orribile e barbarico e infame: laddove uccidere nel nome della Borsa, o del Mercato, o del dominio delle risorse energetiche, è normale; è, se non giusto, quanto meno inevitabile; è il prezzo da pagare per rimanere padroni del mondo. E, come diceva de André, “se Lui ci ha regalato il pianto ed il riso, noi qua sulla terra non lo abbiamo diviso”.

Perché al Dio di Mosè, che ci ha ordinato di non avere altri dèi se non Lui, noi abbiamo risposto che ognuno ha il dio che si merita.

Franco Cardini

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